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Sandro Gamba, colloquio con una leggenda mondiale

Sandro Gamba, colloquio con una leggenda mondiale

Il pensiero di Sandro Gamba è assolutamente importante anche in un periodo in cui, ahimé, di pallacanestro giocata se ne deve fare a meno, del mercato è quasi inutile parlarne, della definizione di nuove regole è ancora presto visto che gli esiti della pandemia sono ancora lontani dall’essere raggiunti. Il grande coach dell’Olimpia e della Nazionale è stato intervistato da Angelo Costa.

Dici Sandro Gamba e fatichi a trovare un aggettivo che lo contenga tutto. E’ stato vincente come giocatore: dieci scudetti a Milano, oltre a due Olimpiadi con la Nazionale dove si è guadagnato i gradi di capitano. E’ stato vincente come allenatore: cinque titoli italiani, un paio di coppe Campioni e altrettante coppe delle Coppe il bilancio sulle panchine di Milano (come vice), Varese, Torino e Virtus Bologna. E’ stato vincente come ct azzurro: un titolo Europeo, l’argento olimpico, più un argento e un bronzo continentali. E’ stato vincente come personaggio: non è un caso che gli americani l’abbiano inserito nella Hall of Fame, dopo il suo maestro Cesare Rubini e prima di Dino Meneghin. Oggi, a 87 anni, è un osservatore attento di tutto il basket, italiano e non solo, che giudica con lo stesso rigore di quando in campo c’era lui.

Gamba, lei è fra i pochi che sono stati campioni sul campo e in panchina: c’è una qualità che ha fatto da filo conduttore di una carriera di successi durata oltre quarant’anni?

‘Una volontà di ferro: quando prendo una decisione, difficile farmela cambiare’.

Come definirebbe la sua carriera?

‘Una soddisfazione enorme: nel basket sono riuscito a fare cose impensabili per uno al quale avrebbero dovuto amputare una mano’.

Racconti.

‘La storia è nota. Per me il giorno della Liberazione è anche quello in cui rimasi ferito. Il 25 aprile del ’45 stavo giocando a pallone vicino a casa, in via Washington a Milano, quando iniziò uno scontro a fuoco (fra fascisti e partigiani, ndr) e venni colpito a una mano. Per i medici bisognava amputare. Fu un capitano dell’esercito americano, Elliott Van Zandt, che poi sarebbe diventato ct della nostra nazionale, ad aiutarmi: mi insegnò alcuni esercizi, come schiaffeggiare un pallone e palleggiare tutto il giorno, che mi consentirono di recuperare la sensibilità perduta. Da lì ho scelto il basket, che mi ha dato anche un lavoro, perché oltre a giocare facevo il rappresentante per la Simmenthal. E dire che volevo fare il ciclista (è nato il 3 giugno, giornata mondiale della bici, ndr): la prima gara, a 14 anni, l’ho vinta subito’.

Tanto di guadagnato per il basket: ha avuto prima un grande giocatore e poi un grande tecnico.

‘Devo tutto a Cesare Rubini. A 18 anni mi ha portato in prima squadra: il resto, a seguire. Poi mi ha chiesto di fargli da vice quando di anni ne avevo 33: ci ho pensato su una notte prima di accettare. Anche se di essere destinato alla panchina l’avevo capito prima: quando parlavo, i compagni mi davano retta. Una leadership naturale, forse perché qualche scudetto e un paio di Olimpiade sulle spalle l’avevo…’.

Da lì sono arrivate le panchine di Varese, Torino, Bologna, oltre a quella della Nazionale.

‘Un orgoglio aver guidato la squadra azzurra: mai mi sarei aspettato di arrivare su quella panchina’.

Tre compagni di squadra speciali?

‘Parlo della mia prima Borletti, quella del 1951. Sergio Stefanini, atleta prodigioso, tra i migliori in Italia sui 400 metri, anche se non perfetto nei fondamentali del basket. Poi Romanutti e Pagani. In seguito sarebbe arrivato Riminucci, formidabile per carattere e agonismo’.

Tre avversari da ricordare?

‘Ce ne sono tanti. Tra i più bravi, Alesini e Calebotta della Virtus. All’estero Borras e Galindez, due oriundi portoricani che giocavano nel Real Madrid’.

Il suo quintetto ideale fra i giocatori allenati?

‘Brunamonti in regìa, Riva guardia, Bisson esterno, Meneghin centro. Come straniero, Bob Morse’.

Altro gioco della memoria: il podio dei suoi successi?

‘In cima, lo spareggio tricolore Milano-Virtus Bologna, il giorno di Pasqua del 1951. Ero al primo anno, Rubini a un tratto mi chiama e mi dice: va’ in campo e fai qualcosa. Feci una decina di punti e qualche numero, oltre che una buona difesa, dove ero più bravo che in attacco. Fui votato miglior giocatore della gara. Fu anche la prima volta che mio padre entrò nello spogliatoio: per congratularsi, mi diede un bacio’.

Sugli altri due gradini del podio personale?

‘La prima coppa Campioni con Varese e l’oro europeo di Nantes con la Nazionale’.

Gamba, negli anni Settanta fiorì una generazione di allenatori entrata nella storia: lei, Sales, Taurisano, Guerrieri, Primo, Pentassuglia avete segnato un’epoca. Come lo spiega?

‘La scuola era buona. In Italia venivano fiori di tecnici americani a far lezione. In più tutti noi eravamo appassionati nel leggere le novità tecniche: io facevo arrivare i testi direttamente dall’America. Questa ondata iniziò già negli anni Sessanta, quando un po’ tutti cominciarono a introdurre nuovi metodi, nuovo sistemi: prima si giocava in un modo solo, imitando Tracuzzi, a suo modo un rivoluzionario, perché come i pittori qualcosa si inventava sempre. Così come pure Nikolic, che venne a lavorare in Italia, e prima ancora Van Zandt e Jim McGregor, lui pure ct della Nazionale. Fu una svolta tecnica, anche se il segreto era avere buoni giocatori: senza quelli, non cambi nulla’.

Tanti successi e un riconoscimento che premia una vita nel basket: l’ingresso nella Hall of Fame.

‘La soddisfazione più grande della mia carriera. Già da tempo si parlava di me: non ci speravo più di tanto, anche perché c’erano in ballo nomi grossi e le candidature erano limitate. Poi nel 2006, in piena notte, mi chiamano dagli Stati Uniti. ‘Coach, lei è stato inserito nella Hall of Fame’, mi dice una voce. A momenti svengo. ‘Può ripetere?’, chiedo. Era capitato solo a Rubini, che ho voluto ricordare nel mio discorso a Springfield oltre a mia moglie Stella, sarebbe poi capitato a Meneghin: è stata l’ultima grande gioia che il basket mi ha regalato’.

Se dovesse fare una relazione sul basket italiano nel terzo millennio, cosa le è piaciuto di più negli ultimi vent’anni?

‘L’organizzazione. I campi sono migliorati, federazione e lega hanno comunque dato un maggior ordine’.

Cosa le è piaciuto di meno?

‘A livello tecnico, manca un gruppo di allenatori in grado di rinnovarsi. Non ci sono più i coach che non vedono l’ora di finire il campionato per volare negli States a seguire i clinic, che restano utilissimi per la formazione: la spinta che avevamo qualche anno fa si è un po’ arrestata’.

Dove è carente questo basket?

‘Nell’insegnamento. Il basket è uno degli sport più difficili da insegnare: vedendo le partite, ci sono allenatori che qualche dubbio me lo lasciano’.

(LE 12 REGOLE DI COACH GAMBA)

In che senso?

‘Le generazioni di cui abbiamo parlato prima erano fatte di tecnici che sapevano insegnare: erano insistenti, pignoli. Magari c’era chi lavorava soprattutto sulla difesa e di quella faceva un marchio di fabbrica. Per questo c’è stato un salto di qualità. Da tempo, forse troppo, non dici più ‘quella è una squadra di Zorzi’, come succedeva in passato, riconoscendone l’impronta tecnica: il più delle volte, devi chiedere chi allena’.

In Nba succede che i coach vengano invitati a migliorare il gioco per non svalutare il prodotto. A proposito: segue le vicende d’oltre oceano?

‘Guardo tutto: professionisti, college, quanto offre la possibilità televisiva’.

Come vede questa migrazione sempre più numerosa dei nostri giovani verso le università americane?

‘E’ un fatto positivo, anche se non partono navi piene di giocatori: i talenti che vanno negli Usa sono pochi. Purtroppo finora non ho visto atleti che, finito il liceo, abbiano fatto grandi progressi, o che, tornati a casa, sono diventati leader nel campionato. Chi prende quella strada meglio che vada in un piccolo college dove ha la possibilità di giocare, possibilmente sotto grandi allenatori: ai miei tempi gente come Carnesecca e Ramsay erano veri maestri’.

Nel terzo millennio, a parte una fiammata iniziale, abbiamo visto spegnersi la Nazionale: come se lo spiega?

‘Il motivo c’è: non produciamo buoni giocatori di livello internazionale. O meglio, ne abbiamo pochi: chi siede sulla panchina azzurra ha difficoltà a coprire tutti i ruoli. Per vincere qualcosa serve talento, perché in giro di brocchi non ce ne sono. Servono anche grandi stimoli: un giocatore deve aver voglia di vincere con la maglia azzurra, non solo vestirla per fare curriculum. Aiuterebbe tutto l’ambiente: quando abbiamo conquistato medaglie con la mia Nazionale, è stata una scossa per l’intero movimento italiano’.

‘Parlo da tecnico: farei di tutto per migliorare i giocatori. Negli ultimi anni non ho notato molti progressi: nella preparazione degli atleti, e di conseguenza nel campionato, di nuovo non succede niente. Da esperto, mi colpisce che si giochi sempre nello stesso modo: non vedo più gli uno contro uno, non vedo nemmeno difendere come Meneghin, anche se Dino era unico. Incide anche la scelta tecnica degli stranieri: oggi arrivano tanti sconosciuti di modesto valore quando invece ci sarebbe bisogno di quelli che spostano davvero, come si diceva una volta. Con la loro classe erano anche i modelli per crescere le nuove generazioni, già nel guardarli i giovani miglioravano. Invece ci sono giocatori che fanno errori e, dopo due mesi, li ripetono: e questo, onestamente, non è un bel segnale’.

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