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La flessibilità cognitiva, il tennis e le Olimpiadi

Quando assistiamo a un match di tennis e facciamo il tifo per uno dei nostri beniamini, può capitare di domandarsi, forse con una certa ingenuità, come mai, a un certo punto della partita, il giocatore non si accorga che sia giunto il momento di variare il proprio gioco perchè in balia dell’avversario.
Quello che invece capita spesso di osservare, è l’utilizzo incessante di schemi tattici ripetitivi o colpi “monocorde” che difficilmente cambiano l’andamento di un match.
Ma allora come mai qualcosa che sembra così semplice e osservabile dall’esterno, risulta così complicato da mettere in atto quando si agisce in prima persona?

Per capirlo è necessario approfondire uno degli aspetti centrali delle funzioni esecutive, la flessibilità cognitiva.
Come ho indicato in un articolo precedente, le funzioni esecutive rappresentano quei processi mentali in grado di produrre una risposta adattiva funzionale di fronte a condizioni ambientali nuove e impegnative, cioè in situazioni e compiti in cui comportamenti e abilità di routine non sono più sufficienti per ottenere un successo.

In particolare, la flessibilità cognitiva può essere definita come la capacità di adattare un comportamento o un modo di pensare a situazioni nuove o inaspettate, cosi da agire in modo più adeguato e adatto alle situazioni che l’ambiente ci porta a fronteggiare.

I buoni osservatori e i più esperti della racchetta, si saranno sicuramente resi conto che esistono nel circuito giocatori più bravi di altri in questo tipo di abilità.
Tuttavia, confrontare stili di gioco diversi, come quello tra Camila Giorgi e quello che mostrava Roberta Vinci, o tra l’esplosività di Sinner e l’estro di Musetti, non è sufficiente per capire come la flessibilità cognitiva influenzi le abilità di problem solving di un giocatore.
Essere cognitivamente flessibili non si traduce necessariamente nell’avere una grande varietà di colpi, ma piuttosto consiste nell’ accorgersi della necessità di applicare e mettere in atto una variazione del proprio gioco al fine di aumentarne l’efficacia.
Se è vero che ci sono giocatori più accorti di altri nel riconoscere il momento adatto per imprimere un cambio tattico o strategico al proprio gioco, perchè risulta cosi complicato sviluppare queste capacità attraverso l’allenamento?
Nel tempo sono stati elaborati programmi specifici nel tentativo di migliorare queste abilità, ma i risultati ottenuti sono ancora occasione di forte dibattito, vista anche la difficoltà nel misurarne la reale efficacia.
Per farla breve, la pillola magica sembra non sia stata ancora inventata.
Se da una parte non si può o risulta difficile intervenire direttamente sullo sviluppo della flessibilità cognitiva nel singolo individuo, dall’altra parte agire direttamente su alcuni elementi dell’ambiente che circondano un giocatore potrebbe portare a risultati ben più interessanti.
Se a qualcuno è capitato di vivere all’estero, si sarà accorto che alcuni comportamenti o modi di fare che risultavano immodificabili in un determinato paese o nazione, diventavano molto più semplici da mettere in atto nella nuova località. Mi viene da pensare all’utilizzo della propria automobile quando si vive nella propria città, e alla semplicità di utilizzare mezzi pubblici quando si vive all’estero. Oppure la tendenza a mangiare sempre nello stesso ristorante, e quella di sperimentare pietanze nuove quando ci si trova in vacanza lontani da casa.

In situazioni di contesto nuove, infatti, riconoscere uno schema di riferimento pre-esistente da applicare risulta meno accessibile al nostro sistema cognitivo e questo ci rende più aperti alla sperimentazione di nuove soluzioni. Ecco perchè risulta più semplice assaggiare un piatto esotico quando siamo in vacanza, o evitare di noleggiare un auto per affidarci ai mezzi pubblici se ci troviamo a vivere in un’altra città per qualche tempo.
In generale, i comportamenti routinari vengono messi in atto perchè danno sicurezza e ci fanno consumare meno risorse cognitive, e il nostro cervello è un organo che predilige il risparmio energetico, anche se all’interno di una performance sportiva ciò potrebbe limitarne le probabilità di successo finale.
Se trasferiamo queste riflessioni in un campo da tennis, possiamo quindi comprendere come non sia facile riconoscere e mettere in atto un cambiamento del proprio gioco all’interno di un match o di una competizione. Per essere in grado di farlo, un giocatore dovrebbe avere, oltre alla consapevolezza della necessità di dover cambiare qualcosa, anche la capacità di inibire un comportamento routinario per uno nuovo e poco conosciuto, l’accettazione del rischio di poter peggiorare la situazione, e naturalmente un grande dispendio di risorse cognitive. Se non siete persone impulsive, provate a pensare a quelle volte in cui avete percepito la necessità di dover cambiare qualcosa nella vostra vita, magari un lavoro o una relazione, salvo poi ritrovarvi impantanati nella stessa quotidianità per paura di modificare il vostro equilibrio. Se vi è capitato qualcosa di simile, allora capirete bene quello di cui parliamo.
Tuttavia, per i grandi campioni fare scelte importanti fuori o dentro sembra quasi una sfida stimolante. Ma perché solo alcuni ci riescono? È probabile che questo tipo di giocatori o giocatrici abbia sperimentato e ricevuto rinforzi positivi dai cambiamenti, e la valutazione del rischio non abbia avuto un impatto eccessivamente negativo nelle loro scelte. Ed è probabile che abbiano fatto esperienza, nel corso della loro carriera, che la modifica del proprio contesto ambientale, che nel tennis può coincidere con un cambio di allenatore o di accademia, un trasferimento in una nuova città o nazione, come accadde ad esempio a Flavia Pennetta, abbia rappresentato per loro l’unica strada percorribile per migliorare il loro gioco in un dato momento.
Potrebbero aver compreso, facendone tesoro, che a volte è necessario rischiare di sbagliare una scelta per diventare giocatori di maggior successo.
In conclusione, se il cambio di contesto assume una tale rilevanza, verrebbe da chiedersi se anche la partecipazione a un evento eccezionale, come ad esempio un Olimpiade, possa configurarsi, inaspettatamente, come l’elemento in grado di rendere la mente di un giocatore o una giocatrice più aperta e disponibile alla sperimentazione di nuove e più efficaci soluzioni, facendo in modo che le esperienze e le informazioni acquisite vengano poi assimilate e incorporate all’interno degli schemi già in possesso, aumentandone conseguentemente le capacità di problem solving. Forse Tokyo 2020 potrà fornirci qualche risposta.

Dott. Marco Caocci
Psicologo


Fonte: http://feed.livetennis.it/livetennis/


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