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Kazan: Ngapeth si confessa all’Equipe. “Non sono Leon, ho le mie armi…”

KAZAN“E’ bizzarro, si parla spesso del razzismo dei russi, ma se a volte mi è capitato di non sentirmi al sicuro in Italia, qui non è mai stato così. Ci sono sguardi, curiosità, ma non aggressività” parla così Earvin Ngapeth in una intervista all’Equipe della sua seconda esperienza in Russia, dopo quella poco fortunata di Kemerovo del 2013, quando a metà stagione il giocatore lasciò la squadra russa per tornare in Patria dove stava per nascere il primo figlio. 

“Ma quando il club di Kazan è interessato a te, è quasi impossibile rifiutare”, dice. “Da quando ero giovane, ne ho sentito parlare. Le due star americane, Clayton Stanley e Lloy Ball, hanno vinto tutto qui. Per molti, è la vera pallavolo. E quando arrivi lì, capisci perché: sei trattato come un calciatore. Nulla è lasciato al caso”.

Dopo una sola notte in albergo, si è trasferito in un appartamento vicino a Bauman Street, la strada pedonale che raccoglie l’anima della città. Un appartamento in una palazzina senza ascensore ma dove capita che i giocatori di basket americani di Kazan che vivono anch’essi lì lo aiutino a portare la spesa.

Le altre attività sono poi tutte ai piedi del palazzo: un bar, anche se il cappuccino non è granché, una pizzeria e una scuola internazionale per la figlia della sua compagna. Quest’ultima è incinta, partorirà a Poitiers ma, nel frattempo, il club ha gestito tutti gli appuntamenti all’ospedale.

Poi racconta di come “Per sei anni ho giocato a Modena, ero entrato in una routine, non mi sentivo più in discussione” dice. “A Kazan, il gruppo non è cambiato da cinque anni, a parte un ragazzo, il miglior giocatore del mondo, e tocca a me sostituirlo”.

Nel caso in cui il suo successore dimenticasse l’impatto lasciato da Wilfredo Leon a Kazan- andato nel frattempo a Perugia – ha solo da aprire la porta dello spogliatoio per sbattere faccia a faccia con la sua foto. “Come se fosse fatto apposta”, ride Ngapeth.

Non cerca di imitarlo, non ha le sue qualità. “Devo giocare con le mie armi. Leon si adatta meglio al gioco russo. Palla alta, colpo potente, muro”.  

Poi un raffronto con la sua precedente “vita italiana” e il differente rapporto tra compagni di squadra, con i russi che vivono a compartimenti stagni: “Quando sono tornato dalla Siberia, ho detto alla mia ragazza che sono rimasto nella mia camera d’albergo per dieci giorni. Non abbiamo neanche bevuto un caffè insieme!”. Niente a che vedere con la vita con i suoi ex compagni di squadra a Modena. Così come la possibilità di vedere il figlio Mathys che sua nonna poteva accompagnarlo per un fine settimana quando suo padre giocava a Modena. Impossibile prendere in considerazione un weekend in Russia. Al momento c’è stato solo una volta, nelle tre settimane per le vacanze natalizie.

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