Era partita come una rivoluzione necessaria, una modernizzazione strutturale con l’ambizione di rendere il tennis un prodotto ancora più globale, appetibile e, soprattutto, redditizio. Sotto lo slogan di “One Vision”, Andrea Gaudenzi e l’ATP avevano promesso una trasformazione radicale del circuito professionistico, puntando in particolare su una rivalutazione dei tornei Masters 1000 per contrastare lo strapotere dei Grand Slam. Più partite, più giorni, più show, più biglietti venduti. Più di tutto. Ma la realtà, ad agosto 2025, è ben diversa: il progetto si è rivelato un boomerang.
L’obiettivo era chiaro: potenziare i tornei di punta, renderli il vero “prodotto premium” del tennis maschile. L’allungamento a due settimane, i tabelloni più ampi, più occasioni per i giocatori fuori dalla Top-100, più tempo per recuperare tra una partita e l’altra. Sembrava una soluzione win-win: migliori condizioni fisiche, più soldi in palio, maggiore visibilità per gli outsider e un’offerta commerciale più ricca per sponsor e organizzatori. Ma tutto ciò aveva (e ha) un prezzo pesantissimo: la salute fisica e mentale dei giocatori, la qualità del gioco e – soprattutto – l’interesse degli appassionati.
Un tennis senza respiro (né anima)
I Masters 1000 allungati si sono trasformati in maratone infinite. I migliori, già spremuti da un calendario infernale, si ritrovano costretti a giocare quattro settimane consecutive fra Washington, Canada e Cincinnati, arrivando stanchi e spesso infortunati allo US Open. Il risultato? Una raffica di forfait, livelli di gioco altalenanti nelle fasi finali, partite decisive che perdono intensità, finali piazzate in giorni e orari improbabili per “incastrare” il tetris delle dirette televisive.
Chi ci guadagna? Forse solo qualche direttore di torneo, che può vantare un record di presenze (spalmate però su due settimane e non concentrate come un tempo). Di certo non i tifosi, disorientati da un format che ha perso gran parte del suo fascino: addio ai magici venerdì sera con quattro quarti di finale, addio a quell’energia contagiosa che si respirava nelle fasi calde del torneo. Oggi le emozioni si diluiscono, i momenti top rischiano di passare quasi inosservati.
Promesse disattese e giocatori sempre più scontenti
La promessa di tabelloni più ampi, che avrebbe dovuto facilitare l’ingresso dei giocatori fuori dalla Top-100, è rimasta solo in parte: i nuovi ingressi sono pochi, i costi di trasferta e permanenza sono aumentati e molti outsider, costretti a girare il mondo per una sola chance, continuano a navigare in acque difficili. I big, dal canto loro, protestano: “Così non si regge, servono più pause”, ripetono a ogni microfono. Eppure nulla cambia.
La strategia “più è meglio” ha prodotto l’effetto contrario: meno attenzione, meno pathos, meno storie da ricordare. E soprattutto un rischio concreto: che il “prodotto premium” venga percepito sempre più come “prodotto di massa”, allungato e annacquato, mentre i Grand Slam – con la loro unicità e la loro tradizione – continuano a dominare le attenzioni di tutti.
Una visione da rivedere
Siamo davanti a una delle più grandi incomprensioni strategiche dell’era ATP? Forse sì. La lunga durata dei Masters 1000, anziché elevare lo status del circuito, ha creato stanchezza, disaffezione, stress e – paradossalmente – una perdita di identità per eventi che, un tempo, erano sinonimo di adrenalina e spettacolo puro.
Ritorno al passato? Difficile. I piani ATP sono a lungo termine e un passo indietro appare poco realistico, almeno nell’immediato. Quello che è certo è che il tennis maschile, oggi, rischia di perdere fascino e centralità proprio per colpa di un eccesso di “visione manageriale” che non ha tenuto conto di ciò che rende unico questo sport: emozione, imprevedibilità, passione. Serviva davvero tutto questo “più”? Forse il segreto era, semplicemente, ascoltare di più i giocatori… e i tifosi.
Francesco Paolo Villarico