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    Medvedev, il tattico: “Ho bisogno di un tennis difensivo, ma non solo, l’importante è saper cambiare” (di Marco Mazzoni)

    Daniil Medvedev, vincitore del Masters 2020

    Daniil Medvedev è uno dei tennisti più attesi del 2021. Il russo ha chiuso il travagliato 2020 col “botto”, vittoria a Bercy e soprattutto alle ATP Finals, dove ha sbaragliato la concorrenza vincendo tutti gli incontri e sconfiggendo nel torneo Djokovic, Nadal e Thiem, i primi tre al mondo. Una dimostrazione di forza che gli è servita moltissimo a ritrovare fiducia dopo una stagione non così buona. Infatti fino agli ultimi due tornei dell’anno (Bercy e Masters) Daniil non era riuscito nemmeno a raggiungere una finale. Agli Australian Open era stato battuto negli ottavi da Wawrinka, quindi pochissima strada negli indoor europei. Nell’estate americana, quella della ripartenza, la semifinale a New York, sconfitto in tre set da Thiem, senza mai dare l’impressione di poter ribaltare l’incontro. Poi due uscite immediate sulla terra in Europa (incluso Roland Garros) e quindi secondo turno a San Pietroburgo, nella sua Russia e in condizioni indoor, dove il suo tennis si esalta.
    Spesso nervoso, poco efficace con la prima, Daniil non dava l’impressione di riuscire ad alzare il livello nei momenti di difficoltà, proprio dove invece aveva impressionato nel 2019. Lo conferma lo stesso giocatore in una intervista rilasciata al sito dell’ATP, in cui ha parlato della svolta a fine 2020. Ne riportiamo alcuni passaggi tra i più interessanti, insieme ad alcune considerazioni.
    “Sicuramente ho avuto dei problemi, specialmente quando non stavo giocando bene”, ha confessato Medvedev. “A volte finisco per perdere la pazienza. Non avevo raggiunto una finale nell’anno… e questo sotto tensione ti viene in mente e non aiuta”.
    “Il tennis non è uno sport facile. È difficile spiegare alcune cose che accadono … Quando sei a terra, devi trovare il modo migliore per alzarti velocemente. C’erano aspettative, io volevo solo dimostrare che sono capace di giocare un buon tennis e battere i ragazzi più bravi”.
    Ricorda con grande soddisfazione la vittoria contro Nadal alle Finals. Un match che aveva praticamente perso, con Rafa a servire per il match nel secondo set. “Quando Rafa stava servendo per la partita, una parte della mia mente stava già pensando …Va bene, tra pochi minuti uscirò da questo campo. È un vero peccato, ero in ottima forma. Mi sentivo come se non stessi giocando peggio di lui. Ho subito un break  nel secondo set, quindi sapevo che quel game era la mia ultima possibilità, ho dovuto dare tutto. Sapevo che avrebbe sentito la pressione come qualsiasi altro giocatore che sta servendo per la partita, e ne ho approfittato riuscendo a trovare delle ottime risposte. Mi sono ritrovato 5 pari, ed ora sì che la pressione era tutta su di lui, perché aveva sprecato la possibilità di chiudere la partita. Da lì in poi ho giocato sempre meglio. Questo è solo un piccolo esempio di cose che ti vengono in mente, che ti fanno concentrare sull’obiettivo e possono girare una partita praticamente persa”.

    Il non festeggiare platealmente dopo una vittoria, anche se importante, è stata una scelta ben precisa: “L’anno scorso ho deciso che sarebbe stato il mio marchio di fabbrica. A molte persone piace, ad altre no, ma è così che preferisco. Quando vinci grandi tornei o anche una bella partita contro grandi avversari e non festeggi, hai effettivamente l’opportunità di guardarti intorno e sentire tutta l’energia che sta circolando. Come artista, come giocatore di tennis, puoi sentire tutto se ci pensi, ed è bellissimo gustarsi tutto questo“.
    L’ultimo focus è relativo al suo tennis. Daniil è un tennista “tattico” nel mero senso del termine: la sua tecnica di gioco – assai personale – è del tutto funzionale al suo piano tattico. Non ci sono molti altri tennisti (anzi, non se ne vedeva da anni!) capaci di “sgonfiare” la palla con ritmi così bassi, comandare lo scambio verso angoli, rotazioni e velocità a lui congeniali e quindi strappare all’improvviso con un’accelerazione fulminante, di diritto o di rovescio, totalmente improvvisa e difficile da leggere. Abbinando quest’abilità difensiva e di contrattacco al suo servizio poderoso e alla qualità notevole anche in risposta, ecco un tennista a dir poco ostico da battere. Per tutti. Uno che non riesci sfondare, che ti fa perdere ritmo (tattica ideale contro la maggior parte degli avversari), che ti fa impazzire perché non capisci che diavolo sta per fare. Un giocatore a suo modo affascinante, perché diverso e capace di regalare grande spettacolo. Eppure alcuni gli rimproverano di essere un difensore… Interessante la sua risposta: “Il mio gioco? Se devo stare sulla difensiva, rimarrò sulla difensiva. Ma di solito contro i primi 10 giocatori restare solo in difesa non funzionerà, quindi devo cambiare tattica. Ovviamente quando mi sento bene, mi piace colpire la palla forte, soprattutto con il diritto. Ma nemmeno tirare solo forte funziona. Alle Finals ho ottenuto più punti vincenti di ogni avversario in tutte le partite che ho giocato, e che ho vinto, il che è fantastico. È la dimostrazione che il mio gioco funziona. Sono felice che le piccole cose su cui abbiamo lavorato con il mio allenatore abbiano funzionato in un contesto così importante”.
    Medvedev è indubbiamente un tennista che divide. Puoi amarne il gioco tattico, vario e bizzarro, oppure odiarne quel gesto scomposto che fa inorridire i “puristi”, come il suo sguardo spesso sprezzante. Di sicuro Daniil non lascia indifferenti. Ogni suo match contro un top player è un bel contrasto di stile perché nessuno gioca come lui. Ricordo il mio primo contatto dal vivo: Milano, NextGen Finals 2017. Mentre tutti erano (giustamente) ammaliati dalla spettacolare irruenza tecnica di Shapovalov, dalla consistenza di Chung e dalla furia di Rublev in accelerazione, personalmente rimasi stupefatto dal potenziale di Medvedev, passato quasi inosservato ai più. Daniil ancora non sapeva stare in campo, caotico in tutti i sensi, ma riusciva a passare con totale nonchalance da palle “spaccate” per violenza pura a scambi lenti, lavorati, “rognosissimi” grazie ad un tocco sopraffino. La palla gli usciva dalle corde in modo spettacolare, non ne leggevi la direzione. Se mette ordine nel suo gioco e nella sua testa, sarà il più forte di tutti questi giovani, pensai. Il campo sta dimostrando proprio questo: Daniil è riuscito a dare un senso al proprio talento costruendosi un gioco unico e vincente.
    Vedremo se agli Australian Open sarà da corsa per il titolo. Nelle sue quattro partecipazioni non ha mai superato gli ottavi.
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    Caccia agli Slam 2021: cosa manca agli “inseguitori”? (di Marco Mazzoni)

    Stefanos Tsitsipas, semifinalista a Roland Garros 2020

    Il 2021 tennistico maschile scatta oggi tra Antalya e Delray Beach, tra le mille incertezze dovute alla pandemia, possibili nuovi spostamenti e cancellazioni. Ci apprestiamo a seguire una stagione che, come mai prima, saremo costretti a vivere giorno per giorno, sperando che le vaccinazioni di massa in corso in molti paesi possano rappresentare la fine del tunnel verso quella “normalità” perduta che oggi ci manca terribilmente.
    In questo scenario di totale incertezza, lanciarsi in previsioni sugli Slam 2021 sarebbe a dir poco ardito. La sensazione è che Novak Djokovic e Rafa Nadal saranno – tanto per cambiare – ancora gli uomini da battere. Nonostante i loro (prossimi) 34 e 35 anni, con mille battaglie nelle gambe e nella testa, la fortissima motivazione di segnare record storici (numero di Slam, settimane al n.1) li farà scattare in pole position, a meno di infortuni o situazioni imprevedibili.
    Altra certezza, la posizione di Dominic Thiem, ormai al pari dei due super campioni. L’austriaco è stato il primo nato nei ’90s a vincere un Major a New York, dopo aver perso finali a Parigi e Melbourne. Ormai Dominic è a tutti gli effetti il terzo incomodo, pronto a vincere a Melbourne, Parigi e New York. E gli altri?
    Nel primo approfondimento del 2021 parliamo degli inseguitori, quella pattuglia variopinta, interessante e ricca di talento quasi pronta a spiccare il volo verso la prima vittoria in uno Slam. Accadrà nel 2021? Non v’è certezza, ma è assai probabile che almeno uno di loro possa finalmente imporsi in uno dei quattro tornei principali della stagione. Ci sono molti segnali concordanti in tal senso. Il disgraziato 2020 ha mostrato per alcuni di loro importanti segnali di crescita, come la finale a US Open di Zverev, la vittoria alle ATP Finals di Medvedev spazzando via i primi tre al mondo, la semifinale di Tsitsipas a Roland Garros (dopo quella a Melbourne del 2019). Andiamo a vederli uno per uno, focalizzando l’attenzione su quel che (a fine 2020) mancava per compiere l’impresa e sedersi al banchetto dei veri Campioni. Per tutti loro sarà fondamentale elevare la “continuità di prestazione”, ossia la capacità di giocare il proprio miglior tennis più a lungo possibile, ma non solo.

    Daniil Medvedev (24 anni) – Continuità con la prima di servizio. È già andato molto vicino a vincere uno Slam, a New York 2019, quando solo l’enorme cuore e classe di Nadal hanno impedito al russo l’impresa, a coronare la sua estate magica. Medvedev ha il tennis più “rognoso” tra gli emergenti: tattico, di difficile lettura, molto personale. Ti porta a giocare male, con quella ragnatela di palle lente, “storte”, senza peso, e poi un improvviso strappo a spezzarti il ritmo e le gambe. Ti manda “in bestia”, ti toglie ritmo e fiducia. Quando Medvedev è davvero centrato, è un bruttissimo cliente per tutti. Però il suo tennis così complesso e personale richiede una perfetta condizione atletica, è assai dispendioso in energie fisiche e psicologiche, perché lui non spazza via il rivale, lo lavora ai fianchi, spesso in match lunghi e faticosi. Per questo il rendimento della prima di servizio diventa fondamentale: ricavare molti punti diretti per non spremersi in ogni scambio, ed allo stesso tempo elevare la frustrazione dell’avversario, è conditio sine qua non per vincere contro i big. Lo si è visto alle Finals, e praticamente in ogni suo grande successo. Ancora la prima di Daniil non è sempre al top. A volte stenta a prendere ritmo, oppure scompare per alcuni games. In uno Slam, con Rafa, Novak o Dominic al di là della rete, non te lo puoi permettere. Se nel 2021 Daniil troverà un servizio ancor più pungente e costante, potrà vincere il suo primo Slam.

    Stefanos Tsitsipas (22 anni) – Intensità e propensione offensiva. Il giovane “Dio greco” del tennis affascina per la sua eleganza nel gesto, completezza tecnica e versatilità. Dalla sua racchetta possono uscire traiettorie splendide da ogni posizione di campo, anche dal diritto, assai migliorato e reso più stabile nell’ultimo periodo. Tuttavia Stefanos ancora difetta in intensità. Nelle grandi e lunghe sfide, ha ancora la tendenza a prendersi delle pause in cui aspetta troppo l’avversario, si mette a scambiare come per rifiatare, ritrovare energie fisiche e mentali. Puntualmente in quei frangenti un rivale top ne approfitta, mette le marce alte e scappa via. Tsitsipas spesso riesce a rientrare, ma compie un grande sforzo che poi finisce per pagare nella fasi decisive (tiebreak, quarto e quinto set). È diventato un discreto lottatore, ma deve riuscire a concentrare gli sforzi in un rendimento medio più alto, cancellando quei momenti un po’ abulici in cui sembra tirare i remi in barca. Allo stesso tempo, deve trovare la fiducia per produrre un tennis più incisivo perché ha tutti i mezzi e colpi per riuscirci. Quando il greco tiene l’iniziativa, affonda i colpi, viene avanti giocando molto aggressivo, produce un tennis non solo bellissimo ma anche vincente ed efficace. Resterà sempre un creativo, soggetto a sbagliare e prendere decisioni tattiche pericolose, ma deve incanalare il suo gioco verso il rischio, con una posizione più avanzata e cercando di tenere in mano l’iniziativa il più possibile, visto che in modalità “creative” è assai più forte rispetto a quando è costretto a rincorrere. E magari usare maggiormente il rovescio slice per togliere ritmo ai molti picchiatori del tour e quindi entrare con i suoi colpi in anticipo.

    Alexander Zverev (23 anni) – Posizione di campo e attitudine. Sono passati diversi mesi, ma ancora resta incredibile la rimonta subita a NY da Thiem nella finale di US Open 2020. Sasha aveva dominato i primi due set, mostrando finalmente un tennis facile, sicuro, offensivo. Thiem fu forse fin troppo dimesso, e la sua scossa nel terzo finì per far ripiombare il tedesco nella propria palude, quella in cui si arrocca con un tennis consistente ma poco incisivo, tanto da annegare. Qua passa tutta la differenza tra un Campione ed un ottimo giocatore. Zverev in carriera ha vinto Masters 1000, le ATP Finals, ha battuto tutti i migliori perché possiede la qualità per farlo. Tuttavia continua non convincere perché riesce in queste imprese solo quando libera testa a braccio, producendo un gioco geometrico e veloce, aggressivo. In questi match, gioca con i piedi più vicini alla riga di fondo, con la prima apre il campo e quindi entra col rovescio poderoso, o lavora lo scambio col diritto cross, lungo e preciso. Quando tiene questa attitudine offensiva insieme ad una posizione avanzata, è un Top player, pronto a vincere uno Slam. Purtroppo ancora gli accade di rado, in modo completamente imprevedibile. È quindi una questione mentale, di fiducia, di presenza in campo. Nella sua giovane carriera, Alexander ha macinato tanti avversari quanti coach… vediamo se David Ferrer sarà quello “buono”. L’iberico fu un esempio di applicazione ed attitudine, proprio quella che manca al suo assistito.

    Andrey Rublev (23 anni) – Piano B. Rublev è stato uno dei giocatori migliori nel 2020. 5 tornei vinti, una crescita importante che l’ha giustamente portato a vincere anche l’ATP Award (insieme al suo coach, Fernando Vicente). Tuttavia i numeri vanno saputi leggere, e questi parlano chiaro: contro i migliori e negli Slam, Rublev ancora fa fatica. Non ha ancora superato la barriera dei quarti in uno Slam, ha battuto pochi Top, tenendo invece un livello medio molto alto contro gli altri. Il motivo di quest’andamento è squisitamente tecnico: il tennis di Rublev è formidabile ma ancora mono dimensionale. Il suo pressing ad altissimo ritmo e grande rischio è il suo marchio di fabbrica, con cui macina moltissimi avversari; ma potrebbe diventare anche la sua maledizione se non riuscirà a costruirsi un piano B per le situazioni in cui non riesce a sfondare l’avversario. Con i piedi vicini alla riga di fondo, Andrey spinge come un forsennato, palla dopo palla, costringendo l’avversario ad accorciare e aprendosi uno spiraglio per l’affondo, o portandolo all’errore. Ma… se questo non avviene? Se l’avversario si appoggia e non sbaglia? O se l’avversario risponde con palle lavorate e lo manda fuori ritmo? Sconfitta, perché Rublev ancora non è riuscito a trovare una via di fuga, una soluzione. Questa potrebbe essere un’incursione a rete (ma la tecnica di volo e posizione sono ancora rivedibili), oppure lavorare per stringere gli angoli con meno velocità e più rotazione, visto che il vero cambio di ritmo non è nelle sue corde. Rublev sembra un tennista già piuttosto formato sul piano tecnico, e con precise qualità ma anche limiti. Magari potrebbe trovare due settimane in cui, sostenuto da una condizione fisica eccezionale e grande sicurezza, riuscirà a travolgere ogni avversario, ma per trovare uno Slam del genere sembrano molti i pianeti che dovrebbero allinearsi alla perfezione…

    Matteo Berrettini (24 anni) – Salute e forma fisica. Di fatto il 2020 dell’azzurro non è valutabile. Ha giocato pochissimo, forte del ranking protetto sui risultati 2019, e quando l’ha fatto non stava quasi mai bene. Lo si sapeva, fin dall’inizio. Nel 2019 il tennis fantastico di Matteo è stato sostenuto da un’annata fortunatamente senza grandi intoppi sul lato fisico. Quando ti porti dietro un corpo così importante, il problema è dietro l’angolo. Con questo dovrà convivere l’azzurro, per tutta la carriera, l’augurio e speranza è che grazie ad un eccellente lavoro si possa preservarne il più possibile la salute, in modo da esplodere in campo quella potenza e qualità che l’hanno portato alla SF a US Open e giocare il Masters di fine anno, chiudendo tra i primi 8 al mondo la stagione 2019. Matteo come tennis può crescere ancora in molte cose: più qualità in risposta, qualche accelerazione di rovescio improvvisa, qualche miglioria nella volée e nell’approccio, una seconda di servizio sempre più incisiva. Ma il miglior Berrettini, seppur incompleto, è già un tennista fortissimo, che se la gioca con i migliori, perché ha un tennis “moderno”, efficace su ogni superficie, a patto di stare bene. L’augurio è di ritrovarlo nel 2021 al 100% sul lato atletico, perché solo con la miglior condizione gioca libero di testa e con fiducia.

    Denis Shapovalov (anni 21) – Ordine e prima di servizio. “Showtime Shapo” ha infiammato il Foro Italico nel 2020, mostrando anche sul rosso quel tennis irresistibile, una macchina da tennis infernale, imprevedibile, bellissima. Capace di creare meraviglie tecniche che ti lasciano a bocca aperta, ma allo stesso tempo distruggere tutto con la stessa velocità. Tra i giocatori di cui ho parlato è il più giovane, in tutti sensi. Quando si è così creativi, quando il padreterno ti regala così tanto talento e possibilità, incastrare il tutto in un piano razionale ed efficace è sempre più complesso. Ancor più se hai una personalità spiccata, vuoi imporre il suo gioco senza compromessi. Per questo solo trovando ancor più ordine e logica, Denis potrà salire di livello trovando quella continuità di rendimento all’interno dello stesso torneo che ancora gli manca. Non ha superato lo scoglio dei quarti in uno Slam, segnale di come faccia ancora fatica a trovare stabilità. Per farlo, oltre ad un lavoro importante sul piano mentale e tattico – auguri Youzhny – sarà necessaria anche una crescita nel rendimento con la prima di servizio. È la storia del gioco che lo dice: tutti i tennisti altamente creativi e con un tennis molto rischioso hanno iniziato a vincere solo quando sono riusciti a ricavare molti punti diretti con la prima. Perché metti sotto pressione il rivale, perché prendi fiducia nel tuo gioco, perché rischiando tanto, qualcosa concedi. Uno Shapo che si gioca uno Slam sarebbe il miglior biglietto da visita per il nostro sport.

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    Open Court: 20 anni fa Safin divenne n.1. La storia di Marat, bello e impossibile (di Marco Mazzoni)

    Marat Safin

    20 novembre 2000. Venti anni fa. Il mondo era un tantino diverso da quello attuale. Non avevamo ancora vissuto lo shock dell’“11 settembre”, gli smartphone ed i social network non avevano ancora invaso il nostro quotidiano, delle pandemie ne parlavano solo i libri di scuola, al passato. Il mondo della racchetta intravedeva in Roger Federer un talento immenso, ma lo svizzero era ancora un progetto di campione, mentre Rafa e Novak erano solo dei giovanissimi impegnati nei tornei under. Il 20 novembre 2000 è una piccola data storica nel mondo della racchetta: Marat Safin divenne n.1 della classifica mondiale. Restò per poco in vetta al ranking, giusto due settimane, per poi tornarci un paio di volte l’anno successivo, per un totale di nove. Il russo ha vinto “solo” due Slam, qualche Masters 1000, e una Davis. Un palmares importante, ma non così impressionante. Eppure pochi tennisti dell’epoca moderna hanno lasciato un segno così profondo, direi indelebile, appassionando milioni di fan in tutto il mondo, che lo ricordano con affetto e rimpiangono le fortissime emozioni vissute assistendo i suoi match.
    Approfittiamo di questa ricorrenza per un ricordo del grande talento russo, uno dei giocatori più affascinanti e controversi degli ultimi anni.

    Croce e delizia, spettacolo e disastri, rabbia e rimpianti. Bello e impossibile, per altri insopportabile. Sbruffone, “piacione”, pigro e arrogante. Delizioso e talentuoso, indolente e rissoso. Spettacolare. Molti, fin troppi, sono gli aggettivi con cui possiamo ricordare il gioco, il talento, la carriera e la personalità di Marat Safin. Quale Safin? La macchina da guerra che annichilì Sampras? Il furibondo spacca racchette? O peggio ancora “l’ex giocatore” che resta docile in un angolo accettando la sconfitta dal carneade di turno, anzi, regalandogli un pomeriggio di notorietà? Raccontare la storia di Marat è un’impresa mica facile. È necessario addentrarsi nella vita del tennista più intricato ed intrigante degli ultimi anni. La strada è perigliosa perché linearità e raziocinio non saranno mai presenti nel racconto di questo bizzarro personaggio. Non vincente quanto Roger, non consistente quando Nadal, ma che fascino…
    Marat Safin, classe 1980, vive nella natia Mosca i primi anni di vita già con la racchetta in mano. Figlio di Misha Safin, gestore di un piccolo tennis club con la moglie Rausa Islanova, severa maestra di tennis e primo coach di Marat e della sorellina Dinara, il piccolo Marat prende sul serio il tennis a sei anni, almeno la storia ufficiale questo racconta. Cresce più o meno serenamente a Mosca, ma ancora siamo alla prima Russia “libera”, manca di tutto. Il padre pare che a volte trovi con difficoltà delle palle da tennis accettabili per sostituire quelle usurate, per non parlare delle corde.
    Anni non facili economicamente, tirare avanti è faticoso, così che sfondare nel tennis non è solo un sogno, piuttosto una necessità. Il passo, quello grande, lo compie da teenager, quando decide tredicenne (d’accordo con la mamma, che a strappi ha guidato buona parte della sua carriera, spesso da lontano) di muoversi in Spagna per provare a diventare un campione, visto che il talento abbonda nel suo DNA. Non è un periodo facile, perché il passaggio dalla fredda e caotica Mosca del post-comunismo alla solare e colorata Valencia è uno shock. E plasma di brutto la sua personalità.
    Marat è uno con la testa dura, caparbio e poco incline a chinare il capo, in campo e fuori. Anche per pigrizia nell’imparare la lingua non riesce a farsi capire in Spagna, tanto da meditare un rientro a casa dopo pochi mesi. Sgomita tutto il tempo, e solo un coach navigato a paziente come Rafael Mensua, che in lui vede un talento fuori dal comune, lo imbriglia in routine di lavoro “relativamente stabili”. Il talento è unico. Questo ragazzone dai piedi pesanti colpisce la palla con la violenza di un pugile e la precisione di un killer, però c’è tanto, tanto da fare. L’umiltà in campo non sa nemmeno cosa sia, la disciplina nella vita e nel lavoro idem, ancor più con la dolce “movida” spagnola che lo circonda, una Sirena irresistibile per un ragazzo che ama “vivere” come lui. Grattacapi infiniti, notti insonni (Marat per la nostalgia di casa, ebbene sì, o perso nei locali; Mensua per il classico “ma chi me l’ha fatto fare?”), ma alla fine il botto c’è, e bello vigoroso.
    Da junior non è un blockbuster. Si fa conoscere al mondo all’edizione 1998 del Roland Garros, dove questo marcantonio con racchetta infila un filotto clamoroso: da n.116 ATP passa le dure qualificazioni parigine, beccandosi Agassi al primo turno, uno dei suoi idoli. Una grandinata di pallate investirà Andre, che scuotendo il capo pensa che la coppa dei Moschettieri non sarà mai sua (un anno Andre, e poi il tuo sogno sarà realtà). Non contenta, la malasorte (punti di vista) gli offre il campione in carica Guga Kuerten, che viene ugualmente maltrattato dal treno russo. La sua corsa si ferma agli ottavi, ma il nome di Marat Safin si impone come quello del talento più devastante visto su di un campo da tennis dai tempi della covata magica USA Agassi-Courier-Sampras. La crescita però non è impetuosa, si nota immediatamente che questo Marat è un cavallo di razza, ma è alquanto bizzarro. Atteggiamenti rudi, a volte brutali in campo, cali di tensione continui, giocate mozzafiato e pause inspiegabili.
    Un episodio che ci riguarda da vicino spiega tante cose. San Marino, l’avversario di un giovane Marat è Vincenzo Santopadre, bravissimo ragazzo e tennista dalla mano straordinaria, ma un po’ leggero come gioco e consistenza; come si spiega il quasi cappotto che il romano riesce ad infliggere a Marat, aggravato da uno warning dell’arbitro per scarso impegno? Inglorioso, tanto che se ricordate al russo questa giornata, il buon Marat si inalbera tutt’ora… Di episodi simili e pagine nere la sua carriera ne vivrà più d’una; ma anche tanti pomeriggi, e soprattutto serate nei palazzetti indoor dove Marat ha dato il suo meglio, partite in cui vederlo giocare è stata un’esperienza indimenticabile.

    Talento unico
    Pochissimi tennisti sono riusciti a produrre un tennis così potente ma allo stesso tempo di talento. Non solo mazzate brutali, ma colpi ricchi d’anima, di quella drammatica ed intrigante indole tutta russa che li fa esser uno dei popoli più affascinanti e allo stesso tempo incomprensibili. Chi intravide nella potenza di Marat un tennis disumano, capiva ben poco di questo sport. La finale degli Us Open 2000, proprio quella in cui Marat demolì Pete Sampras a casa sua, resta una delle più grandi dimostrazioni di tennis totale mai viste nell’era moderna. Mai in carriera Sampras ha subito in una finale un simile trattamento. Annientato.
    Quello resta uno dei due match capolavoro della carriera di Safin, insieme alla semifinale degli Australian Open 2005, quando sconfisse un Federer al top 9-7 al quinto set. Nella finale di New York 2000, Safin affrontò Sampras dominandolo in tutti i settori del gioco. Servì in sicurezza, dritti e rovesci precisi e potenti, e soprattutto schiantò Sampras al servizio grazie ad un’ora e mezza di risposte che nemmeno il miglior Agassi era mai stato capace in carriera di produrre contro Pete. Marat toccò dei picchi di gioco poche volte sfiorati nella storia recente del tennis.
    E come fai a spiegare al ragazzino che appena lo conosce, che questo immenso talento abbia vinto una miseria di grandi tornei? Non è facile. Forse impossibile. E se lo chiedi a Marat, la sua risposta sarà un sorriso complice, della serie “It’s my life, baby”. Genio e sregolatezza, questo abusato cliché calza a pennello al nostro eroe, il tennista che ha vinto di meno negli ultimi anni in rapporto all’immensa magia del suo braccio.
    L’ultimo Safin che ricordo al top fu quello di un gelido (per noi) venerdì di gennaio, anno 2005. Melbourne il luogo del delitto: Safin sfida il “cannibale” Federer nella semifinale degli Australian Open. Match clamoroso, tecnicamente il migliore che io ricordi da quel giorno, uno dei migliori di sempre. Marat doma quello che è considerato “il migliore” dell’era Open con un 9-7 al quinto, annullando un match point e giocando con classe e continuità tennis stellare per potenza, precisione, varietà di soluzioni. Dove Safin vinse il match? Difficile trovare una sola chiave nell’epica impresa; l’efficacia del servizio fu determinante, non tremò mai il suo braccio al momento di recapitare Ace o servizi vincenti. Nello scambio quello che “matò” Federer fu certamente il rovescio del russo. Sempre consistente nella diagonale, con una palla lunga e potente che non ha mai permesso a Roger di governare lo scambio con le sue magiche mezze volate in anticipo. Alla consistenza aggiunse in dose industriale il colpo del miglior Safin: il cambio improvviso col rovescio lungo linea. Grande appoggio coi piedi, Marat arrivava bene sulla palla, raccolto; apertura breve con la racchetta dietro e via, per un’accelerazione composta, quasi rannicchiato, con la racchetta che non si allontanava dal corpo nello swing, per un impatto imperioso per timing e potenza. Un lampo, un attimo, con la palla che scappava velocissima e retta, cambiando direttrice e filando lungo linea con un sibilo mortale per il rivale; anche un certo Roger Federer nel climax della sua efficacia. Gesto di una bellezza da Michelangelo del tennis, per quella forza carica di grazia sportiva. Difficile per un comune mortale infrangere le leggi della fisica, che ti fanno scappare larga la palla, ma non per Safin. Il controllo dimostrato da Marat in tale situazione è quasi misterioso, e quel venerdì sera di quindici anni fa pizzicò spesso il campo scoperto da Roger. E così molte altre volte, nelle serate giuste.
    Tuttavia non si può inquadrare Marat solo in questa esecuzione, perché il russo (quando decideva di giocare al suo meglio, s’intende) possedeva una tecnica praticamente perfetta in tutte le situazioni di gioco. Un dritto micidiale per potenza, soprattutto in cross; una sensibilità nei pressi della rete di prim’ordine, un servizio devastante; una risposta che nella finale degli Us Open 2000 fece apparire il servizio di Sampras (sì, proprio il colpo che ritengo più decisivo nella storia del tennis) quello di un carneade. Quando Marat girava a tutta, produceva un tennis da numero uno, e che numero uno. Peccato che ci abbia regalato solo alcune perle di quel valore assoluto, in mezzo a troppi pomeriggi grigi, nebbiosi o rabbiosi, passati alla storia per sceneggiate da attore di provincia. Furia autodistruttiva, una testa “ballerina”, troppo distratto da mille cose, donne e non. Nel tennis moderno (già quello di Marat), imbruttito da materiali così performanti da far prevalere la forza alla grazia, la potenza senz’arte alla tecnica, il livello medio è così agguerrito ed il lato fisico del gioco così importante che un braccio baciato dagli Dei non è più sufficiente, anche se ti chiami Marat Safin.

    Genio e sregolatezza
    Marat è entrato nella storia del nostro sport, ahimè, più come clamoroso tombeur de femme, come rockstar con racchetta, che per le coppe alzate al cielo. Non si contano le fiamme che l’hanno acceso, in tutti gli angoli del mondo. Iconico il vezzo machista sventolato ai quattro venti in una ormai “mitica” conferenza stampa di qualche anno fa: “Mai pagata una donna per venire nel mio letto, più facile che potesse accadere il contrario …o che abbia pagato per mandarla via”, un po’ rozza nella sostanza, ma in pieno Safin style, quindi genuina, perché lui è stato sempre vero, limpido. Eccessivo sì, bugiardo mai. Passò alla storia la battuta di David Nalbandian, che lagnandosi a Monte Carlo per esser stato messo in campo alle 10 di mattina, se ne uscì con un’acida battuta: “Non mi possono mettere in campo alla ora in cui Marat rincasa dalla discoteca….”. Per non parlare delle notti bollenti a Tashkent, dove con Kafelnikov non aveva altro che l’imbarazzo della scelta tra le starlette di casa… Vodka, ragazze, anche amicizie non proprio ortodosse, tanto che nella natia Mosca è stato coinvolto in qualche rissa, rimediando anche un occhio nero poco prima di un torneo. Gli aneddoti dei suoi anni migliori sono più delle sue vittorie, come l’indimenticabile “Family”, ossia le tre “biondone” che l’hanno accompagnato in tribuna durante la sua campagna all’Australian Open 2002, quando giocò un torneo perfetto sino alla finale contro Thomas Johansson, svedese nemmeno dei più forti, eroe per un giorno grazie a Marat. Il russo prese totalmente sottogamba quel match, trascinato in finale da un talento irreale ma poi finendo per giocare l’incontro decisivo in modo terribile, passando da sbruffone a gattino impaurito e masticando poi amarissimo all’ennesima, bruciante, sconfitta.
    Eppure il suo istinto un po’ rozzo nasconde un cuore da bravo ragazzo, non troverete mezzo collega tennista che vi parlerà male di lui. Perché Marat è genuino al 100%. Preferisce tirarti un pugno in faccia e poi invitarti a bere una vodka piuttosto che sparlare di te alle spalle. Contagiosa la sua simpatia, contagioso nel suo mostrarsi nudo e crudo, ammettendo anche i tanti sbagli di una vita vissuta sempre premendo sull’acceleratore e, soprattutto, non rimpiangendo mai nulla.
    Uno degli episodi più bizzarri fu quando partì per il Tibet, convinto di poter scalere una vetta da 8000 metri, senza un allenamento specifico. Arrivato a quota 5000 metri, dove inizia l’ultima fase di acclimatamento, fu preso da terribili mal di testa per l’altura. Macché pillole, pare che solo un buon whisky riuscisse a lenirgli i dolori, forse per abitudine. Fece i bagagli e tornò indietro sconfitto dalla montagna, ma dichiarò di aver conosciuto gente incredibile, e che una volta smesso di giocare avrebbe viaggiato un bel po’, conoscendo gente e paesi nuovi, come Sud Africa, Messico, Nuova Zelanda.

    Il declino, testa e infortuni
    Verità, esagerazioni. Vero che Safin ha buttato al vento buona parte della sua carriera per troppa “bella vita”. Ma c’è anche dell’altro. Marat è stato influenzato pesantemente da una sensibilità spiccata e da una personalità controversa, spesso celata da atteggiamenti da sbruffone nel classico “giocarsi contro”, creandosi alibi per la disfatta. Un po’ piagnone, incarnando quel non so che di uomini perdenti dall’indole tutta russa, uomini profondi e mai banali, arrovellati in pensieri autodistruttivi. Una sensibilità ed intelligenza mal sfogata in esplosioni che mascheravano un coprirsi a riccio, per difendersi dalle proprie mille insicurezze.
    Testa e non solo. Le tante sconfitte di Safin e i suoi lunghi periodi “off” sono quasi sempre stati archiviati con la sua indole non proprio professionale. In realtà, quel ragazzone russo ha anche sofferto di una miriade di infortuni, anche per colpa di corpo imponente e non sempre ben allenato a resistere alle terribili sollecitazioni del tennis moderno. Solo fino al 2003 non ha patito importanti infortuni. Da lì in poi, troppe volte il fisico gli ha presentato il conto, con infortuni più o meno seri ma che l’hanno molto limitato. L’inizio della sua fine è arrivato quando Marat ha perso fluidità. Negli ultimi anni divenne un tennista troppo rigido, tanto da passare dall’essere un formidabile costruttore di gioco con mano fatata a energumeno “tira-pallate”, senza quella capacità di accompagnare il colpo che invece ad inizio carriera era incredibile per coordinazione, tecnica e tempismo. Risultato? Una pallata tirata ad occhi chiusi ti può entrare, magnifica, di rabbia. Ma una sola, o poche, sporadiche. Al Safin d’annata uscivano fucilate d’autore; da metà 2005 divenne un tennista da grande impresa, senza continuità. Indoor, dove si esalta il tennis più tecnico, ha continuato a regalare perle d’autore. Serate bellissime.
    Oltre ai problemi fisici, mai è riuscito a tenersi un buon coach, per mantenere un indirizzo vincente e una routine “sportiva di alto livello”. Solo con Chesnokov al fianco s’è visto qualche miglioramento tattico, ma l’incantesimo è durato pochi mesi. Inoltre fu un errore lasciare il preparatore atletico Landers (poi morto prematuramente per un tumore al cervello), che guarda caso lo tirò a lucido nell’autunno 2004 portandolo al successo a Melbourne l’anno seguente. Poi è calato il sipario sulla sua preparazione fisica, con importanti problemi alla schiena ed un ginocchio. Non è un caso che proprio sull’erba Wimbledon 2008 (sì, quella che dichiarò “adatta alle vacche” facendo inorridire i sudditi di Sua Maestà…) sia venuto il suo ultimo exploit (semifinale): la superficie più soffice lo facilitava negli appoggi, da sempre fondamentali affinché potesse scaricare a terra l’enorme potenza del suo fisico.
    Vedi il palmares di Safin e leggi solo 2 titoli dello Slam e la Coppa Davis, oltre a molte finali perse e varie occasioni mancate. Marat ha gestito male il periodo di interregno tra Sampras e Federer, proprio quando fece una breve apparizione sul trono ATP, secondo russo nella storia dopo Kafelnikov. Quello fu il momento di Hewitt, incredibile agonista ma con mezzi nemmeno paragonabili a quelli del Safin ventenne, ancora sano sul lato fisico. Se Marat deve recriminare qualcosa nella sua carriera, è non aver approfittato di quel momento storico, in cui poteva infilarsi e sfruttare al meglio il suo talento. È un delitto che Marat non sia stato il terzo incomodo dalla nascita della rivalità Roger-Rafa a metà anni 2000. Aveva tutto quel che serve per ricoprire, alla grande, quel ruolo.
    Safin ci ha regalato sprazzi di grande tennis ed intense emozioni, nel bene e nel male. Di sicuro da quando ha appeso la racchetta al chiodo il tour ha perso uno dei talenti e personaggi più intriganti degli ultimi anni.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Open Court: Roland Garros, tra palle e ambiente sarà davvero un torneo “diverso”? (di Marco Mazzoni)

    Due giorni di torneo sono un po’ pochini per emettere delle sentenze su quel che ci dirà il tanto sofferto e discusso Roland Garros 2020, ma il primo riscontro dal campo permette di trarre delle indicazioni già interessanti, delle tendenze. Si è parlato e scritto moltissimo, già dai primi allenamenti on site, sulle condizioni ambientali: […] LEGGI TUTTO

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    Open Court: IBI20, un torneo ricco di sorprese (di Marco Mazzoni)

    Sorprendenti. Questo l’aggettivo più calzante per gli IBI20, oggi arrivati alle semifinali. Alla vigilia la sensazione che potesse essere un torneo diverso dal “solito”, con i “soliti” sempre in fondo, aleggiava nell’aria. Il 2020 non è un annata qualunque, il nostro amato tennis alla fine è parte del nostro vivere, scorre con i problemi e le situazioni che affrontiamo ogni giorno. Il maledetto lockdown, l’impossibilità a viaggiare, la difficoltà nell’allenarsi e competere hanno prodotto una spallata allo status quo. Finora abbiamo avuto una finale Slam a NYC tutta nuova, ed un nuovissimo campione. Che possa succedere anche a Roma? C’è una discreta probabilità, anche se l’unico campione rimasto in gara è il “cannibale” Djokovic, pronto a vincere ancora un Masters 1000, ancora Roma, e riprendersi quella prima pagina gettata al vento con quella pallata gettata maldestramente… Tuttavia una vittoria del “Djoker” non è così scontata.
    Novak ha faticato tanto in questo torneo, quasi mai è riuscito a trovare il picco di prestazione e soprattutto mantenerlo. Krajinovic è un buonissimo giocatore, nel loro incontro Filip è riuscito a metterlo sotto con il suo tennis preciso e geometrico. Ieri altra prestazione così così per il n.1: contro Koepfer ha mostrato dei vuoti clamorosi, amplificati dalla forma irreale del tedesco, tosto all’inverosimile e bravissimo ad azzeccare una settimana che, chissà, gli cambierà la carriera. La ragione dice che Djokovic possa solo crescere. Magari finora ha giocato sempre col freno a mano tirato, tantissime volte in carriera è entrato nei tornei con una condizione incerta per poi… BOOM…! alza il livello in un attimo e diventa ingiocabile. La sensazione (visto anche dal campo) è quello di un atleta ben preparato ma coi nervi scoperti. Basta un nonnulla per farlo esplodere o implodere, a seconda di come la vediamo. Come se la rabbia esternata in modo scomposto a US Open covasse da tempo e non riuscisse a trovare una via d’uscita. Una furia, una mancanza di serenità che al primo momento di tensione agonistica gli si rivolta contro, lo trascina in una palude infida ed esterna la parte peggiore di lui. È evidente che il 2020 (eccetto l’inizio di stagione perfetto) non sia andato esattamente bene sul piano personale, e questo forse adesso gli sta presentando il conto anche in campo. Vedremo oggi come andrà. Contro Ruud è favorito. Forse il rampante norvegese non ha le armi per stroncarlo; forse il ritmo arrotato perfezionato alla Rafa Nadal Academy può metterlo sotto stress, e chissà… Tra qualche ora sapremo. Ruud è uscito benissimo dalla vittoria su Berrettini, ultimo azzurro in gara dopo un torneo a fortissime tinte nazionali. Resterà nella memoria anche come il torneo di Musetti, dei record degli azzurri, e purtroppo anche come quello di una chance sprecata per Matteo… Non era facile la partita, ma trovare nei quarti di Roma un avversario “migliore” di Ruud non capiterà spesso.

    Parte bassa, semifinale totalmente imprevista ma assolutamente intrigante. Schwartzman ieri ha CAMMINATO SULLE ACQUE. Ho avuto la fortuna di vedermela tutta sul Centrale insieme ad altre 40 persone (contate una x una…). Un Nadal non così malvagio è stato sconfitto sul piano del gioco e della spinta da un piccoletto con il motorino nelle gambe, la dinamite nel braccio ed un cuore immenso. Diego non mai tremato, nemmeno quando ha perso due volte il servizio nel secondo set, imponendo subito il contro break. Ha giocato la partita perfetta. Ha sfidato la potenza del diritto di Rafa per poi girare col rovescio sull’angolo aperto. Ha risposto con una continuità e lunghezza degna del miglior Djokovic. Ha retto l’impatto del “Rey” con una solidità mentale e fisica irreale. Nadal alla fine ha reso merito all’argentino ma è stato molto, troppo critico con se stesso. L’unico appunto che gli si può fare è quello di non aver ricavato granché con la prima di servizio, e di esser stato un po’ corto nel palleggio nel primo set. Ma i meriti di super-Diego sono stati nettamente superiori ai demeriti di Rafa. Infatti vorrei sottolineare un momento che forse in tv non si è visto: subito dopo il match point, tutto il clan Nadal (soprattutto il padre Sebastian, seduto vicino alla panchine dell’argentino) si è letteralmente alzato in piedi ad applaudire Schwartzman, dando il giusto tributo ad una prestazione mostruosa. Se quella di ieri è stata solo la 40esima partita su terra persa da Nadal sulla terra (dal 2002, INCREDIBILE!), beh, vuol dire che l’impresa resterà negli annali. Cosa aspettarsi allora oggi da Diego? Non facile saperlo. Come avrà dormito? Come avrà metabolizzato questa partita? Come sarà a livello fisico oltre che mentale dopo cotanto sforzo? Lo sapremo solo oggi. Da un lato potrebbe esser ancor più galvanizzato; dall’altro potrebbe esser un filo scarico, e… di fronte avrà un altro talento mancino in grandissima forma fisica e tecnica: Denis “Showtime” Shapovalov.
    Il canadese ieri su Pietrangeli ha domato per la prima volta Dimitrov in una partita ad altissimo contenuto tecnico. Ha giocato pure bene Grigor, ma la strapotenza nella spinta e la quantità di soluzioni di Denis ha prevalso. Nei momenti in cui Shapovalov serve bene è stato incontenibile. Clamorosa la sua facilità di accelerare, anche spingendo palle senza peso o molto basse. Ho visto tutta la partita nella “beata solitudine” di un Pietrangeli vuoto. È stato uno spettacolo alto dal punto di vista tecnico. Un privilegio esser lì ad ammirare la bellezza di un tennis ricco di talento ed adrenalina, e la crescita di un giovane può far “saltare il banco”. Denis è sempre un tennista umorale, un po’ instabile, ma se entra “in the zone” diventa ingestibile. Shapo ha trovato ritmo con la prima e con la risposta, questo è il termometro del suo tennis. Quando i colpi di inizio gioco vanno, significa che c’è con la testa e allora son dolori… Anche sul rosso, perché può gestire benissimo i tempi di gioco e entrare sulla palla sia a tutta che arrotando sui top spin ricevuti. Misteriosa la sua abilità nel palleggiare con buona rotazione e cambiare in un attimo spingendo una pallata secca, piena, velocissima. Ieri sera Denis ha prodotto una serie di vincenti straordinaria. Che match sarà oggi contro Schwartzman? Intanto sarà una prima volta. È un contrasto di stile totale, quindi gli ingredienti per una bellissima partita ci sono tutti. La speranza è che Diego non sia troppo stanco/scarico, e che Denis non avverta troppo la pressione dell’evento. Fare un pronostico è impossibile, ma una cosa è certa: se entrambi giocheranno bene, sarà il tennis a vincere.Buone semifinali a tutti.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Open Court: nelle parole di Gaudenzi idee e opportunità (di Marco Mazzoni)

    Finalmente. Era tempo che aspettavo (insieme a tutto il mondo della racchetta) una vera presa di posizione di Andrea Gaudenzi, un’intervista lunga, franca, approfondita. Per la prima volta da quando si è insediato sulla poltrona più “pesante” del mondo tennistico, l’Andrea nazionale ha parlato, e l’ha fatto in modo schietto, con concetti interessanti. Per chi […] LEGGI TUTTO

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    Open Court: Buon compleanno, Stan Wawrinka (di Marco Mazzoni)

    Quando a gennaio la stagione tennistica riparte dopo la pausa invernale, ogni vero appassionato avverte quella botta di adrenalina “buona” che aspetti da tempo. Che ti fa sembrare bellissima anche una partita modesta, o un incontro che in un altro momento dell’anno avresti tranquillamente trascurato. Doha è il primo appuntamento nel calendario, in Qatar. Grande […] LEGGI TUTTO

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    Open Court: i numeri record di Djokovic e sua la dieta “Plant-based” (di Marco Mazzoni)

    Novak Djokovic ha iniziato il 2020 con un percorso netto, 18 vittorie e nessuna sconfitta. Il dato è ancor più impressionante se si guarda agli avversari sconfitti nei (pochi) tornei disputati: Nadal (n.1 in classifica nella settimana del loro match), Thiem (allora n.5), Federer (3), Medvedev (5), Tsitsipas (6), Monfils (n.9), Schwartzman (14), Shapovalov (15), Khachanov […] LEGGI TUTTO