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    Un documentario sulla vita di Rublev, Andrey si racconta

    Il russo Andrey Rublev ha appena diffuso un interessante documentario (in russo, ma con sottotitoli in eng) in cui ripercorre la sua vita, da giovane moscovita fino ai primi passi nel mondo Pro. È un bello spaccato dell’esperienza di un giovane a caccia del successo nel difficile mondo del tennis. Rublev conduce gli spettatori nei […] LEGGI TUTTO

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    Schwartzman: “Guardando indietro, ho vissuto momenti difficili. Mio bisnonno si salvò dall’Olocausto”

    Diego Schwartzman

    Resilienza. Il dizionario la definisce come “la capacità di un individuo di affrontare e superare eventi traumatici o periodi di difficoltà”. Questa parola esprime esattamente la forza di Diego Schwartzman, arrivato a fine 2020 tra i migliori 8 al mondo (e qualificato alle Finals di Londra) dopo un percorso che definire ad ostacoli è riduttivo. Un fisico minuto (è il più basso tra i top 100, ed uno dei più piccoli ad esser arrivato così in alto in epoca moderna), una famiglia che l’ha sempre sostenuto ma che dovuto fronteggiare un collasso finanziario proprio mentre lui si affacciava faticosamente al tennis Pro. Rinunce, scelte difficili, sofferenza vera, ma alla fine la sua grande determinazione è stata premiata, regalandogli la possibilità di far fruttare il suo talento.
    In una lunga intervista concessa al magazine britannico Tennishead, Diego ripercorre alcune delle tappe importanti del suo viaggio, partendo addirittura dagli antenati, i suoi nonni, che per primi conobbero e superarono gli orrori del nazismo.  Una storia che merita di esser raccontata proprio oggi, 27 gennaio, nel “Giorno della Memoria”.
    “Ho radici ebree – racconta Diego – il bisnonno dalla parte di mia madre, che viveva in Polonia, fu caricato su un treno diretto verso un campo di concentramento durante l’Olocausto. Il destino ha voluto che il perno che collegava due vagoni del treno in qualche modo si ruppe, così che una parte del comvoglio continuò la sua corsa e l’altra rimase indietro. Ciò ha permesso a tutte le persone intrappolate all’interno, compreso il mio bisnonno, di scappare e salvarsi la vita. Fortunatamente ce la fece senza essere scoperto. Il solo pensiero di quest’episodio fa capire come le vite possono cambiare in un batter d’occhio”.

    “Il mio bisnonno ha portato la sua famiglia via nave in Argentina. Quando sono arrivati, parlavano yiddish e non spagnolo, n0n è stato facile. La famiglia di mio padre era russa, anche loro andarono in Argentina via mare. Non è stato facile per tutti cambiare completamente la loro vita dopo la guerra, ma lo hanno fatto. La mia famiglia aveva un business avviato nel settore dei gioielli, ma quando l’Argentina andò in bancarotta la crisi finanziaria travolse il nostro lavoro. Ci siamo ritrovati soli, io, i miei due fratelli maggiori, mia sorella maggiore e i miei genitori cercando in qualche modo di guadagnarci da vivere, anzi cercando di sopravvivere. Non avevamo soldi, era davvero difficile a giocare a tennis, non potevamo davvero permettercelo. Ma ho giocato più che potevo con enormi sacrifici. A un certo punto vendevamo persino braccialetti di gomma che erano rimasti dall’attività della mia famiglia. Abbiamo fatto tutto il possibile per ottenere i soldi per pagare i viaggi ai tornei e le spese. Guardando indietro, era una situazione davvero difficile. Ma all’epoca l’ho affrontata con lo spirito giusto, pensavo in grande, era un sacrificio necessario, a tratti persino divertente. Ho aiutato mia madre a vendere i braccialetti e così hanno fatto alcuni degli altri giocatori che erano con me. Tra una partita e l’altra andavamo tutti in giro con una borsa di braccialetti per vedere chi poteva vendere di più e mia madre gli dava il 20% delle vendite”.
    Una lotta imporsi nel mondo del tennis Pro con queste difficoltà. Infatti la crescita di Schwartzman è stata lenta, con un lungo percorso in patria. Diego ha giocato tornei in Argentina per la maggior parte della sua attività junior. Ha preso parte solo ad un evento del Grande Slam junior, perdendo al primo turno delle qualificazioni agli US Open, e non è mai stato un junior di successo. Dei primi 96 tornei che ha giocato da senior, 91 sono stati in Sud America, la maggior parte dei quali in Argentina. Gli altri cinque furono durante un breve viaggio in Europa, quando aveva 19 anni. “Venendo dal Sud America, ogni singolo passo che devi fare nel tennis è davvero costoso”, afferma Schwartzman. “Non è facile per le famiglie latino americane quando i figli cercano di intraprendere la strada del tennis Pro. A quel tempo sono stato fortunato perché avevamo molti tornei in Argentina e Sud America, a differenza di oggi. Avevamo forse 20 Futures all’anno in Argentina e alcuni Challenger tra Argentina e altri paesi limitrofi”.
    Nelle prime esperienze di viaggio, Schwartzman era con sua madre. “Non c’era mai una TV, in quasi tutti i tornei a cui andavamo, eravamo costretti a condividere il letto. Questo è ciò che potevamo permetterci”.
    Diego ha raccontato anche un piccolo aneddoto relativo a Maradona. “Conservo tutti i suoi messaggi, per me è stato una leggenda. Una volta mi disse una frase che fu per me di grande ispirazione. Avevo perso una partita contro Djokovic, giocando un buon tennis. Maradona mi fece i complimenti, consigliandomi di studiare i campioni ma stando attendo non imitare nessuno, perché un campione non lo puoi copiare, la copia sarà sempre peggiore dell’originale. Mi consigliava di osservare come hanno giocato contro di me, per capire i miei punti deboli, e allo stesso tempo capire la forza dell’avversario per poterlo affrontare al meglio al volta successiva”.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Open Court: 20 anni fa Safin divenne n.1. La storia di Marat, bello e impossibile (di Marco Mazzoni)

    Marat Safin

    20 novembre 2000. Venti anni fa. Il mondo era un tantino diverso da quello attuale. Non avevamo ancora vissuto lo shock dell’“11 settembre”, gli smartphone ed i social network non avevano ancora invaso il nostro quotidiano, delle pandemie ne parlavano solo i libri di scuola, al passato. Il mondo della racchetta intravedeva in Roger Federer un talento immenso, ma lo svizzero era ancora un progetto di campione, mentre Rafa e Novak erano solo dei giovanissimi impegnati nei tornei under. Il 20 novembre 2000 è una piccola data storica nel mondo della racchetta: Marat Safin divenne n.1 della classifica mondiale. Restò per poco in vetta al ranking, giusto due settimane, per poi tornarci un paio di volte l’anno successivo, per un totale di nove. Il russo ha vinto “solo” due Slam, qualche Masters 1000, e una Davis. Un palmares importante, ma non così impressionante. Eppure pochi tennisti dell’epoca moderna hanno lasciato un segno così profondo, direi indelebile, appassionando milioni di fan in tutto il mondo, che lo ricordano con affetto e rimpiangono le fortissime emozioni vissute assistendo i suoi match.
    Approfittiamo di questa ricorrenza per un ricordo del grande talento russo, uno dei giocatori più affascinanti e controversi degli ultimi anni.

    Croce e delizia, spettacolo e disastri, rabbia e rimpianti. Bello e impossibile, per altri insopportabile. Sbruffone, “piacione”, pigro e arrogante. Delizioso e talentuoso, indolente e rissoso. Spettacolare. Molti, fin troppi, sono gli aggettivi con cui possiamo ricordare il gioco, il talento, la carriera e la personalità di Marat Safin. Quale Safin? La macchina da guerra che annichilì Sampras? Il furibondo spacca racchette? O peggio ancora “l’ex giocatore” che resta docile in un angolo accettando la sconfitta dal carneade di turno, anzi, regalandogli un pomeriggio di notorietà? Raccontare la storia di Marat è un’impresa mica facile. È necessario addentrarsi nella vita del tennista più intricato ed intrigante degli ultimi anni. La strada è perigliosa perché linearità e raziocinio non saranno mai presenti nel racconto di questo bizzarro personaggio. Non vincente quanto Roger, non consistente quando Nadal, ma che fascino…
    Marat Safin, classe 1980, vive nella natia Mosca i primi anni di vita già con la racchetta in mano. Figlio di Misha Safin, gestore di un piccolo tennis club con la moglie Rausa Islanova, severa maestra di tennis e primo coach di Marat e della sorellina Dinara, il piccolo Marat prende sul serio il tennis a sei anni, almeno la storia ufficiale questo racconta. Cresce più o meno serenamente a Mosca, ma ancora siamo alla prima Russia “libera”, manca di tutto. Il padre pare che a volte trovi con difficoltà delle palle da tennis accettabili per sostituire quelle usurate, per non parlare delle corde.
    Anni non facili economicamente, tirare avanti è faticoso, così che sfondare nel tennis non è solo un sogno, piuttosto una necessità. Il passo, quello grande, lo compie da teenager, quando decide tredicenne (d’accordo con la mamma, che a strappi ha guidato buona parte della sua carriera, spesso da lontano) di muoversi in Spagna per provare a diventare un campione, visto che il talento abbonda nel suo DNA. Non è un periodo facile, perché il passaggio dalla fredda e caotica Mosca del post-comunismo alla solare e colorata Valencia è uno shock. E plasma di brutto la sua personalità.
    Marat è uno con la testa dura, caparbio e poco incline a chinare il capo, in campo e fuori. Anche per pigrizia nell’imparare la lingua non riesce a farsi capire in Spagna, tanto da meditare un rientro a casa dopo pochi mesi. Sgomita tutto il tempo, e solo un coach navigato a paziente come Rafael Mensua, che in lui vede un talento fuori dal comune, lo imbriglia in routine di lavoro “relativamente stabili”. Il talento è unico. Questo ragazzone dai piedi pesanti colpisce la palla con la violenza di un pugile e la precisione di un killer, però c’è tanto, tanto da fare. L’umiltà in campo non sa nemmeno cosa sia, la disciplina nella vita e nel lavoro idem, ancor più con la dolce “movida” spagnola che lo circonda, una Sirena irresistibile per un ragazzo che ama “vivere” come lui. Grattacapi infiniti, notti insonni (Marat per la nostalgia di casa, ebbene sì, o perso nei locali; Mensua per il classico “ma chi me l’ha fatto fare?”), ma alla fine il botto c’è, e bello vigoroso.
    Da junior non è un blockbuster. Si fa conoscere al mondo all’edizione 1998 del Roland Garros, dove questo marcantonio con racchetta infila un filotto clamoroso: da n.116 ATP passa le dure qualificazioni parigine, beccandosi Agassi al primo turno, uno dei suoi idoli. Una grandinata di pallate investirà Andre, che scuotendo il capo pensa che la coppa dei Moschettieri non sarà mai sua (un anno Andre, e poi il tuo sogno sarà realtà). Non contenta, la malasorte (punti di vista) gli offre il campione in carica Guga Kuerten, che viene ugualmente maltrattato dal treno russo. La sua corsa si ferma agli ottavi, ma il nome di Marat Safin si impone come quello del talento più devastante visto su di un campo da tennis dai tempi della covata magica USA Agassi-Courier-Sampras. La crescita però non è impetuosa, si nota immediatamente che questo Marat è un cavallo di razza, ma è alquanto bizzarro. Atteggiamenti rudi, a volte brutali in campo, cali di tensione continui, giocate mozzafiato e pause inspiegabili.
    Un episodio che ci riguarda da vicino spiega tante cose. San Marino, l’avversario di un giovane Marat è Vincenzo Santopadre, bravissimo ragazzo e tennista dalla mano straordinaria, ma un po’ leggero come gioco e consistenza; come si spiega il quasi cappotto che il romano riesce ad infliggere a Marat, aggravato da uno warning dell’arbitro per scarso impegno? Inglorioso, tanto che se ricordate al russo questa giornata, il buon Marat si inalbera tutt’ora… Di episodi simili e pagine nere la sua carriera ne vivrà più d’una; ma anche tanti pomeriggi, e soprattutto serate nei palazzetti indoor dove Marat ha dato il suo meglio, partite in cui vederlo giocare è stata un’esperienza indimenticabile.

    Talento unico
    Pochissimi tennisti sono riusciti a produrre un tennis così potente ma allo stesso tempo di talento. Non solo mazzate brutali, ma colpi ricchi d’anima, di quella drammatica ed intrigante indole tutta russa che li fa esser uno dei popoli più affascinanti e allo stesso tempo incomprensibili. Chi intravide nella potenza di Marat un tennis disumano, capiva ben poco di questo sport. La finale degli Us Open 2000, proprio quella in cui Marat demolì Pete Sampras a casa sua, resta una delle più grandi dimostrazioni di tennis totale mai viste nell’era moderna. Mai in carriera Sampras ha subito in una finale un simile trattamento. Annientato.
    Quello resta uno dei due match capolavoro della carriera di Safin, insieme alla semifinale degli Australian Open 2005, quando sconfisse un Federer al top 9-7 al quinto set. Nella finale di New York 2000, Safin affrontò Sampras dominandolo in tutti i settori del gioco. Servì in sicurezza, dritti e rovesci precisi e potenti, e soprattutto schiantò Sampras al servizio grazie ad un’ora e mezza di risposte che nemmeno il miglior Agassi era mai stato capace in carriera di produrre contro Pete. Marat toccò dei picchi di gioco poche volte sfiorati nella storia recente del tennis.
    E come fai a spiegare al ragazzino che appena lo conosce, che questo immenso talento abbia vinto una miseria di grandi tornei? Non è facile. Forse impossibile. E se lo chiedi a Marat, la sua risposta sarà un sorriso complice, della serie “It’s my life, baby”. Genio e sregolatezza, questo abusato cliché calza a pennello al nostro eroe, il tennista che ha vinto di meno negli ultimi anni in rapporto all’immensa magia del suo braccio.
    L’ultimo Safin che ricordo al top fu quello di un gelido (per noi) venerdì di gennaio, anno 2005. Melbourne il luogo del delitto: Safin sfida il “cannibale” Federer nella semifinale degli Australian Open. Match clamoroso, tecnicamente il migliore che io ricordi da quel giorno, uno dei migliori di sempre. Marat doma quello che è considerato “il migliore” dell’era Open con un 9-7 al quinto, annullando un match point e giocando con classe e continuità tennis stellare per potenza, precisione, varietà di soluzioni. Dove Safin vinse il match? Difficile trovare una sola chiave nell’epica impresa; l’efficacia del servizio fu determinante, non tremò mai il suo braccio al momento di recapitare Ace o servizi vincenti. Nello scambio quello che “matò” Federer fu certamente il rovescio del russo. Sempre consistente nella diagonale, con una palla lunga e potente che non ha mai permesso a Roger di governare lo scambio con le sue magiche mezze volate in anticipo. Alla consistenza aggiunse in dose industriale il colpo del miglior Safin: il cambio improvviso col rovescio lungo linea. Grande appoggio coi piedi, Marat arrivava bene sulla palla, raccolto; apertura breve con la racchetta dietro e via, per un’accelerazione composta, quasi rannicchiato, con la racchetta che non si allontanava dal corpo nello swing, per un impatto imperioso per timing e potenza. Un lampo, un attimo, con la palla che scappava velocissima e retta, cambiando direttrice e filando lungo linea con un sibilo mortale per il rivale; anche un certo Roger Federer nel climax della sua efficacia. Gesto di una bellezza da Michelangelo del tennis, per quella forza carica di grazia sportiva. Difficile per un comune mortale infrangere le leggi della fisica, che ti fanno scappare larga la palla, ma non per Safin. Il controllo dimostrato da Marat in tale situazione è quasi misterioso, e quel venerdì sera di quindici anni fa pizzicò spesso il campo scoperto da Roger. E così molte altre volte, nelle serate giuste.
    Tuttavia non si può inquadrare Marat solo in questa esecuzione, perché il russo (quando decideva di giocare al suo meglio, s’intende) possedeva una tecnica praticamente perfetta in tutte le situazioni di gioco. Un dritto micidiale per potenza, soprattutto in cross; una sensibilità nei pressi della rete di prim’ordine, un servizio devastante; una risposta che nella finale degli Us Open 2000 fece apparire il servizio di Sampras (sì, proprio il colpo che ritengo più decisivo nella storia del tennis) quello di un carneade. Quando Marat girava a tutta, produceva un tennis da numero uno, e che numero uno. Peccato che ci abbia regalato solo alcune perle di quel valore assoluto, in mezzo a troppi pomeriggi grigi, nebbiosi o rabbiosi, passati alla storia per sceneggiate da attore di provincia. Furia autodistruttiva, una testa “ballerina”, troppo distratto da mille cose, donne e non. Nel tennis moderno (già quello di Marat), imbruttito da materiali così performanti da far prevalere la forza alla grazia, la potenza senz’arte alla tecnica, il livello medio è così agguerrito ed il lato fisico del gioco così importante che un braccio baciato dagli Dei non è più sufficiente, anche se ti chiami Marat Safin.

    Genio e sregolatezza
    Marat è entrato nella storia del nostro sport, ahimè, più come clamoroso tombeur de femme, come rockstar con racchetta, che per le coppe alzate al cielo. Non si contano le fiamme che l’hanno acceso, in tutti gli angoli del mondo. Iconico il vezzo machista sventolato ai quattro venti in una ormai “mitica” conferenza stampa di qualche anno fa: “Mai pagata una donna per venire nel mio letto, più facile che potesse accadere il contrario …o che abbia pagato per mandarla via”, un po’ rozza nella sostanza, ma in pieno Safin style, quindi genuina, perché lui è stato sempre vero, limpido. Eccessivo sì, bugiardo mai. Passò alla storia la battuta di David Nalbandian, che lagnandosi a Monte Carlo per esser stato messo in campo alle 10 di mattina, se ne uscì con un’acida battuta: “Non mi possono mettere in campo alla ora in cui Marat rincasa dalla discoteca….”. Per non parlare delle notti bollenti a Tashkent, dove con Kafelnikov non aveva altro che l’imbarazzo della scelta tra le starlette di casa… Vodka, ragazze, anche amicizie non proprio ortodosse, tanto che nella natia Mosca è stato coinvolto in qualche rissa, rimediando anche un occhio nero poco prima di un torneo. Gli aneddoti dei suoi anni migliori sono più delle sue vittorie, come l’indimenticabile “Family”, ossia le tre “biondone” che l’hanno accompagnato in tribuna durante la sua campagna all’Australian Open 2002, quando giocò un torneo perfetto sino alla finale contro Thomas Johansson, svedese nemmeno dei più forti, eroe per un giorno grazie a Marat. Il russo prese totalmente sottogamba quel match, trascinato in finale da un talento irreale ma poi finendo per giocare l’incontro decisivo in modo terribile, passando da sbruffone a gattino impaurito e masticando poi amarissimo all’ennesima, bruciante, sconfitta.
    Eppure il suo istinto un po’ rozzo nasconde un cuore da bravo ragazzo, non troverete mezzo collega tennista che vi parlerà male di lui. Perché Marat è genuino al 100%. Preferisce tirarti un pugno in faccia e poi invitarti a bere una vodka piuttosto che sparlare di te alle spalle. Contagiosa la sua simpatia, contagioso nel suo mostrarsi nudo e crudo, ammettendo anche i tanti sbagli di una vita vissuta sempre premendo sull’acceleratore e, soprattutto, non rimpiangendo mai nulla.
    Uno degli episodi più bizzarri fu quando partì per il Tibet, convinto di poter scalere una vetta da 8000 metri, senza un allenamento specifico. Arrivato a quota 5000 metri, dove inizia l’ultima fase di acclimatamento, fu preso da terribili mal di testa per l’altura. Macché pillole, pare che solo un buon whisky riuscisse a lenirgli i dolori, forse per abitudine. Fece i bagagli e tornò indietro sconfitto dalla montagna, ma dichiarò di aver conosciuto gente incredibile, e che una volta smesso di giocare avrebbe viaggiato un bel po’, conoscendo gente e paesi nuovi, come Sud Africa, Messico, Nuova Zelanda.

    Il declino, testa e infortuni
    Verità, esagerazioni. Vero che Safin ha buttato al vento buona parte della sua carriera per troppa “bella vita”. Ma c’è anche dell’altro. Marat è stato influenzato pesantemente da una sensibilità spiccata e da una personalità controversa, spesso celata da atteggiamenti da sbruffone nel classico “giocarsi contro”, creandosi alibi per la disfatta. Un po’ piagnone, incarnando quel non so che di uomini perdenti dall’indole tutta russa, uomini profondi e mai banali, arrovellati in pensieri autodistruttivi. Una sensibilità ed intelligenza mal sfogata in esplosioni che mascheravano un coprirsi a riccio, per difendersi dalle proprie mille insicurezze.
    Testa e non solo. Le tante sconfitte di Safin e i suoi lunghi periodi “off” sono quasi sempre stati archiviati con la sua indole non proprio professionale. In realtà, quel ragazzone russo ha anche sofferto di una miriade di infortuni, anche per colpa di corpo imponente e non sempre ben allenato a resistere alle terribili sollecitazioni del tennis moderno. Solo fino al 2003 non ha patito importanti infortuni. Da lì in poi, troppe volte il fisico gli ha presentato il conto, con infortuni più o meno seri ma che l’hanno molto limitato. L’inizio della sua fine è arrivato quando Marat ha perso fluidità. Negli ultimi anni divenne un tennista troppo rigido, tanto da passare dall’essere un formidabile costruttore di gioco con mano fatata a energumeno “tira-pallate”, senza quella capacità di accompagnare il colpo che invece ad inizio carriera era incredibile per coordinazione, tecnica e tempismo. Risultato? Una pallata tirata ad occhi chiusi ti può entrare, magnifica, di rabbia. Ma una sola, o poche, sporadiche. Al Safin d’annata uscivano fucilate d’autore; da metà 2005 divenne un tennista da grande impresa, senza continuità. Indoor, dove si esalta il tennis più tecnico, ha continuato a regalare perle d’autore. Serate bellissime.
    Oltre ai problemi fisici, mai è riuscito a tenersi un buon coach, per mantenere un indirizzo vincente e una routine “sportiva di alto livello”. Solo con Chesnokov al fianco s’è visto qualche miglioramento tattico, ma l’incantesimo è durato pochi mesi. Inoltre fu un errore lasciare il preparatore atletico Landers (poi morto prematuramente per un tumore al cervello), che guarda caso lo tirò a lucido nell’autunno 2004 portandolo al successo a Melbourne l’anno seguente. Poi è calato il sipario sulla sua preparazione fisica, con importanti problemi alla schiena ed un ginocchio. Non è un caso che proprio sull’erba Wimbledon 2008 (sì, quella che dichiarò “adatta alle vacche” facendo inorridire i sudditi di Sua Maestà…) sia venuto il suo ultimo exploit (semifinale): la superficie più soffice lo facilitava negli appoggi, da sempre fondamentali affinché potesse scaricare a terra l’enorme potenza del suo fisico.
    Vedi il palmares di Safin e leggi solo 2 titoli dello Slam e la Coppa Davis, oltre a molte finali perse e varie occasioni mancate. Marat ha gestito male il periodo di interregno tra Sampras e Federer, proprio quando fece una breve apparizione sul trono ATP, secondo russo nella storia dopo Kafelnikov. Quello fu il momento di Hewitt, incredibile agonista ma con mezzi nemmeno paragonabili a quelli del Safin ventenne, ancora sano sul lato fisico. Se Marat deve recriminare qualcosa nella sua carriera, è non aver approfittato di quel momento storico, in cui poteva infilarsi e sfruttare al meglio il suo talento. È un delitto che Marat non sia stato il terzo incomodo dalla nascita della rivalità Roger-Rafa a metà anni 2000. Aveva tutto quel che serve per ricoprire, alla grande, quel ruolo.
    Safin ci ha regalato sprazzi di grande tennis ed intense emozioni, nel bene e nel male. Di sicuro da quando ha appeso la racchetta al chiodo il tour ha perso uno dei talenti e personaggi più intriganti degli ultimi anni.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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