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Buon ingresso negli “anta”, caro Roger (di Marco Mazzoni)

Nel 40esimo compleanno di Roger Federer, scelgo di fargli i miei personalissimi auguri senza un contributo storico, celebrativo. Preferisco raccontare come l’ho conosciuto, la mia prima volta con lui di fronte. Parecchi anni fa. Era il 13 aprile 1998…

La palla corre carica d’effetto, uncinata dal dritto già potente di Filippo Volandri, speranza del nostro tennis. È veloce. Fila via sopra la rete, maligna, con un angolo cross importante. I miei occhi sono rapiti dalla sfera che avanza sicura nell’aria tersa di quella domenica mattina di aprile, schivando sicura il polline che gli alti alberi del parco delle Cascine dispensano fin troppo generosamente. Non c’è vento. Il silenzio regna in tribuna tra la centinaia di spettatori accorsi per la finale del più importante evento giovanile fiorentino, ITF Under18. Questa la prima istantanea di quella mattina, appena entrato (di corsa) sul centrale del CT Firenze.

Sono in ritardo, è difficile trovare parcheggio intorno al club, molti hanno pensato di portare i figli al parco approfittando del primo pallido sole primaverile. Entrato di corsa fino all’angolo destro del campo, il mio sguardo è subito calamitato sullo scambio in corso, su Filippo che aveva appena colpito. Su quella palla così liftata da arrampicarsi vigorosa ben oltre il mio sguardo, e che ora arriva giusto dritta verso di me. Quasi che Filippo avesse voluto punire con una “pallata” la mia maleducazione per essermi avvicinato al campo con il gioco in corso.

Resto come sospeso in quell’attimo, seguendo la traiettoria angolata della palla. Sento ansimare, passi rapidi e sicuri marcano la terra rossa fiorentina, che ha conosciuto campioni come Panatta e Ramirez, Muster, Ivanisevic e tanti altri. Entra finalmente nel mio campo visivo l’altro giocatore, per il quale – oltre a Filippo – m’ero spinto nel giorno di pasquetta ’98 sino in riva all’Arno: Roger Federer. Non l’avevo mai visto in faccia. Non sapevo che aspetto avesse. Ignoravo che tipo di tennis giocasse. Svizzero poi, mica un junior svedese o francese… Però alle mie scrupolose indagini non era passato inosservato il suo ranking ITF, n.1 con un anno e mezzo d’anticipo sui canonici 18. La sua racchetta è lo Stradivari del tennis, Wilson ProStaff 85, accessibile solo a pochi eletti. Indizi di qualità.

Con i suoi 350 grammi abbondanti di sostanza e magia, la racchetta di Federer si scaglia con violenta sicurezza sulla palla di Volandri, mulinando nell’aria, a pochi metri dalla mia faccia, uno swing imperioso. Un lampo. Impatto secco, con un leggero spin di controllo, in totale allungo con il braccio ben disteso in avanti ed un minimo gioco del polso, fino a terminare la sua corsa dietro alla spalla sinistra. I miei occhi sono perfettamente ortogonali alla traiettoria di uscita del colpo di Federer. Sgrano lo sguardo, non è possibile… La palla muore subito al di là della rete, stretta, velocissima, imprendibile. Dopo qualche istante di muto sconcerto, qualche spettatore applaude. Volandri guarda allibito. La faccia di Roger non accenna la minima emozione, sprezzante, quasi a dire “Beh? Che c’è di strano?”.

Mi colpisce il suo sguardo molto cupo, intenso. Emana qualcosa di speciale. Mi siedo senza riuscire a staccarmi da quel volto segnato da una profonda inquietudine. Mi scuote, mi aspettavo tutt’altro, e forse per questo mi intriga. Chiedo al mio vicino di posto, un anziano dall’aria sveglia: “Quanto stanno?”. “È avanti l’altro” (che sarebbe Federer). “Ne ha giocati altri di colpi così?”. “Parecchi!”

Si dice che gli appuntamenti al buio siano pericolosi, può capitarti di tutto, comprese tremende delusioni. Ma a volte scattano colpi di fulmine, incontri che cambiano una vita. Quel giorno successe a me. Non sapevo cosa sarebbe successo, speravo solo di assistere ad un bel match di tennis, ammirando in campo un “possibile” buon giocatore italiano, contro uno che “si dice” sia un talento. Quel giorno ho conosciuto cosa sia Il Tennis. Alla massima potenza. Ho incontrato, lì a due metri da me, Roger Federer.

L’incontro terminerà 7-6 6-3 per il futuro campionissimo del tennis moderno, con un susseguirsi di colpi straordinari. Un campionario completo di onnipotenza tecnica e tennistica, nonostante la strenua e coraggiosa opposizione di un buonissimo Volandri. Quel pubblico prima ostile ora applaude convinto lo svizzero, restando semmai basito da qualche reazione scomposta di Roger a suoi banali errori che, nonostante il punteggio favorevole, sottolineava con enfasi eccessiva. Lanci di racchetta compresi, schifato da sporadici unforced in mezzo ad una sinfonia tennistica. Infastidito dai suoi errori gratuiti quanto da quelle ciocche di capelli che si ostinava a ordinare con dovizia di lendliana memoria, ma inesorabilmente ribelli dopo ogni scatto felino. Quell’edizione degli Internazionali junior di Firenze non la ricordo solo io. Non sarà facile che passi di nuovo sui courts fiorentini un talento così cristallino. I miracoli difficilmente si ripetono.

Questo il racconto del mio incontro ravvicinato con Roger Federer, per alcuni il più forte di tutti i tempi, divino. Io preferisco definirlo come colui che incarna il tennis più di ogni altro campione da me ammirato in oltre trentacinque anni di passione per questo sport. A detta non solo della mia penna, ma anche di chi ha vissuto una vita intera aggirandosi tra i vari courts del mondo, cavalcando epoche e campioni immortali, forse nessuno meglio di Roger è riuscito ad unire così mirabilmente gli ingredienti che rendono il tennis uno sport così diverso da tutte le altre arti umane, terribilmente difficile ed affascinante. Federer è una Treccani vivente della tecnica classica, ma interpretata in chiave modernissima. Incarna una completezza tecnica assoluta espressa all’ennesima potenza, grazie a cui è riuscito a dominare ogni millimetro del campo e ogni situazione di gioco con totale nonchalance. È un atleta così elastico, esplosivo e resistente da non cadere quasi mai in affanno, rasentando la perfezione stilistica con terribile efficacia. Bello e vincente, anche se fragile nella pugna. Quello che personalmente mi ha sempre impressionato vedendolo giocare è la naturale facilità del suo tennis, quella sensazione di composta onnipotenza che trasuda nella sue giocate. Federer è stato capace di rendere possibili le soluzioni più ardite, il tutto senza mai apparire come un miracolo balistico ma come qualcosa di normale. Per gli amanti dei gesti bianchi, fermi oppositori della strapotenza fisica applicata all’arte della racchetta, tutt’ora ancorati a radici secolari di armonie e leggerezze, Federer è stato una manna dal cielo.

Inutile raccontare oggi, nel giorno del suo 40esimo compleanno, vittorie, imprese, record, ma anche tremende sconfitte e terribili delusioni; gli stenti e dubbi dell’inizio carriera, due lustri di vittorie strepitose, i primati assoluti; quindi il calo, la rinascita, fino al sogno di chiudere alzando di nuovo LA coppa, infranto di qualche centimetro un paio d’estati fa e trasformatosi in un incubo e game over. Per questo, ci sono i libri di storia.

Adoro profondamente il tennis di Federer, che considero il più elegante e completo mai visto su di un campo da tennis nell’era moderna, totale, inarrivabile. Ma ammetto di non essere riuscito a tifarlo (tifo, che brutta parola…) come accadde con Edberg, perché Stefan era altrettanto bello, ma più debole e raggiungibile. Vedere lo svedese sfidare eserciti di bombardieri armato solo della sua funambolica grazia mista a coraggio mi aizzava come un soldato d’assalto, pronto a saltare la trincea per accompagnarlo in ogni scontro. Con Roger è più difficile immedesimarsi. Fin troppo perfetto il suo incedere e la sua prestazione, troppo alta da raggiungerla nel mio piccolo mondo, così terreno, così imperfetto. Solo grande, sterminata ammirazione, assaporando lentamente le gioie che regala il suo tennis. I gesti di Roger fanno rivivere il meglio di 500 anni di tennis, una sinfonia dell’arte della racchetta portata ai giorni nostri. È un Lewis Hoad del 2000, scaturito dalla simbiosi tra la classe a tutto campo di Sampras, l’anticipo su colpi piatti di Agassi, la consistenza fisica di un Borg e l’eleganza di un Edberg. Scacco Matto. È l’evoluzione massima della tecnica classica reinterpretata a velocità del futuro. Il suo fisico naturalmente forte, esplosivo e resistente è stato la base indispensabile per consentirgli di arrivare ad un livello di gioco così elevato. Elastico, efficiente, raffinato, mai scomposto. Regale.

Anche i Re, purtroppo, invecchiano. Caro Roger, lo spettro del tuo prossimo ritiro atterrisce i tuoi milioni di tifosi, devastati della prospettiva di perdere non solo il proprio idolo ma uno stile di gioco. È la vita. Tutto scorre, tutto passa. Preferisco vedere l’altra faccia della medaglia, ossia abbandonare una legittima nostalgia e sottolineare quanto mi ritenga fortunato per aver potuto vivere (e raccontare) le gesta di un tennista così sontuoso, bello e impossibile nella sua classe e fragilità. La più bella eredità di Federer non sono i record, le vittorie, le coppe, ma l’aver tramandato un gioco rinnovandolo, alzando l’asticella. Dimostrando che anche nel 2020 si può ancora interpretare i canoni massimi di una disciplina di destrezza alle velocità e consistenze del nuovo secolo. La perfezione non esiste, non è cosa per noi umani. Ma su di un campo da tennis se mai qualcuno ci è andato davvero vicino, questo è stato Roger Federer.

Buon ingresso negli ‘anta Roger. Alla fine, non si sta poi così male…

Marco Mazzoni


Fonte: http://feed.livetennis.it/livetennis/


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