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Dolgopolov annuncia il ritiro, un suo ricordo (di Marco Mazzoni)

Alexandr Dolgopolov ha annunciato il ritiro dal tennis Pro. Lo comunica il sito ATP, con un ricordo del 32enne ucraino, che da moltissimo tempo era costretto ai box per colpa in un problema al polso destro, purtroppo mai superato. L’articolazione ha ceduto nella primavera 2018, e nonostante tanti tentativi di recupero (due operazioni) il suo ultimo match ufficiale sul tour maggiore risale agli Internazionali BNL d’Italia di quell’anno, quando perse nettamente all’esordio contro Djokovic. Tre mesi dopo il primo intervento al polso, poi un secondo, riposo e fisioterapia, tentativi di rientro agli allenamenti, mai sul tour per partite ufficiali. Lascia con 3 titoli vinti (Umag 2011, Washington 2012 e Buenos Aires 2017) e un best ranking al n.13 toccato il 16 gennaio 2012. Negli Slam vanta i quarti di finali agli Australian Open 2011. Ricordare “Dolgo” con i freddi numeri è quasi inutile. Non perché questi non contino, tutt’altro, ma l’ucraino, classe 1988, più che un giocatore è stato un “giocoliere”, un sorta di illusionista con racchetta, pronto a stupire gli avversari, il pubblico (…e forse anche se stesso) con colpi particolari, estemporanei, totalmente istintivi e creativi.

Dotato di un fisico da normotipo e un incedere a volte buffo, “Dolgo” è esploso nel grande tennis quasi all’improvviso, dopo una veloce gavetta nei Futures e Challenger. Ancora lo ricordano bene a Roma, dove esordì nel 2007 al Challenger che si disputava appena prima degli IBI. Con quel gioco spumeggiante, senza ritmo, colpendo in salto totalmente decontratto, arrivò nei quarti, sconfitto dal solido rumeno Victor Hanuecu dopo averlo quasi “umiliato” sul piano tecnico in un primo set vinto 6-0. Nello stesso anno vinse il Challenger di Sassuolo e poi semifinale a Mantova. L’esplosione nel 2010, con ottimi risultati nei Challenger ad inizio anno, l’ingresso nella top100 e quindi l’approdo nei tornei maggiori, dove valeva sempre il prezzo del biglietto. Al 1000 di Madrid passò le quali, sconfisse Andy Seppi e poi gioco una partita splendida contro il “tiranno” Nadal, sorpreso più volte dalle accelerazioni in salto, improvvise e perentorie di Sasha. Fu il suo vero “ingresso in società”, dopo quel match il suo nome era spesso cercato nei tabelloni e schedule giornalieri, perché ammirarlo (soprattutto nelle giornate sì) era un’esperienza diversa, appagante. Il suo momento magico resterà la corsa a Melbourne 2011, quando superò prima Tsonga (allora n.13 del mondo) e poi Soderling (quello vero, era n.4 in quel momento) con due partite splendide in 5 set. Perse da Murray in 4, ma giocando un’altra bella partita, con momenti di tennis notevoli.

Momenti è la parola esatta che descrive “Dolgo”. Oggi che annuncia il ritiro, posso dire che di Dolgopolov non ricordo tanto un match, una partita, un torneo, ma momenti del suo gioco. Perché lui alla fine giocava nel senso vero del termine, si divertiva a divertire se stesso e gli altri. Mai due colpi uguali, non uno schema rigido. Mai l’efficacia piegata alla vittoria, vincere era la conseguenza di uno stato di flusso tecnico che accompagnava la sua visione. Perché lui vedeva il campo in modo diverso. Quel rettangolo così ortogonale per lui era come una tela, da dipingere con palle una diversa dall’altra. Sentiva il momento, sentiva il rivale, lo osservava e quindi sparava palle lente, poi lunghe, quindi forti e velocissime, e infine di nuovo tagli e arrotate. Il tutto neanche per “fargli male” quanto per imporre il suo tennis. Non che non si difendesse, ma lo faceva a suo modo, senza forza bruta, senza palle a far sbagliare. Non ne aveva nemmeno il fisico per calarsi nei panni del pedalatore. Lui era diverso, in tutti sensi. E dice oggi nel momento del ritiro, “spero di aver divertito chi mi ha seguito”. Eccome se hai divertito… e proprio per questo ci mancherai, e già mancava il tuo estro, quel modo di porsi così differente in un mondo estremizzato su tutto, dall’atletismo all’agonismo.

Lo ricordo distintamente in un’edizione del torneo di Umag, edizione 2010. Pioveva a dirotto quella settimana, e appena il sole faceva capolino, tutti in campo ad allenarsi per preparare al meglio i match. Lui no. Quella mattina se ne stava a passeggio sulla laguna di Katoro, osservando le barche e sentendo il vento nei capelli con il suo fido coach Jack Reader, e sorseggiando una bibita. Il campo poteva aspettare perché era finalmente spuntato il sole, il panorama era splendido e quello era il momento di goderselo. Per la cronaca poi in campo ci andò, dopo un breve allenamento, e vinse giocando da Dio, strapazzando Skugor tra palle corte perfette ed accelerazioni di rovescio micidiali.

Del resto, quando hai un tennis così fondato sulle sensazioni, solo con un buon “mood” lo puoi esprimere. “Avevo bisogno di essere di buon umore per giocare il mio miglior tennis”, ammette oggi Dolgopolov, “Era così semplice. A volte ero stanco o di cattivo umore e non avevo davvero bisogno di competere. In generale avevo bisogno di essere sano, ma anche di lottare e competere, e a volte non è successo. Tutto era basato sulla sensazione”.

Molti gli hanno rimproverano, nei suoi anni migliori, di non aver espresso il massimo del suo potenziale. Lo pensa anche Reader, che oggi dichiara: “Una volta abbiamo avuto una conversazione che “mi ha ucciso”… Era nel momento migliore, gli dissi ‘Sei arrivato al numero 13 con talento, ma se tratti meglio il tuo corpo e la tua dieta possiamo andare oltre’. Sascha mi ha risposto: ‘Quindi devo lavorare di più Jack?’ guardandomi come se gli avessi detto chissà cosa. Quello fu come un calcio nel volto… Se avesse iniziato a fare le cose come fanno i ragazzi più forti, sarebbe potuto andare più in alto, aveva i mezzi per farcela”.

In un tennis sempre più spinto verso l’estremo per competizione, fisicità, intensità, la leggerezza di palla e di pensiero di Dolgopolov manca e mancherà terribilmente. Buona vita, genio.

Marco Mazzoni


Fonte: http://feed.livetennis.it/livetennis/


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