Quando Novak Djokovic parla, il mondo del tennis si ferma ad ascoltare. A 38 anni, fresco del suo titolo numero 101 conquistato all’ATP di Atene, il serbo ha concesso a Piers Morgan un’intervista profonda, sincera, per molti versi sorprendente. Un dialogo che attraversa la sua carriera, il futuro, il rapporto con Carlos Alcaraz e Jannik Sinner e il delicato tema dell’eredità tennistica.
Djokovic — che ha accettato le scuse del giornalista per le parole pronunciate al tempo della sua “deportazione” dall’Australia nel 2022 — si è mostrato lucido e introspectivo, quasi più del solito.
“Non posso dire di essere il migliore di sempre. Sarebbe irrispettoso”
Sul tema del GOAT, Djokovic mantiene la sua linea:
«Me lo chiedono da anni, ma non darò mai una mia opinione. Sarebbe irrispettoso verso Federer, Nadal e verso chi è venuto prima. Amo troppo la storia del tennis per mettermi su un piedistallo».
Ricorda come il tennis sia cambiato enormemente negli ultimi 50 anni: tecnologia, superfici, palline, preparazione. «È impossibile paragonare le epoche» afferma.
L’ultima fase della carriera: “Sto vivendo una transizione”
Djokovic si riconosce in un momento chiave della sua vita sportiva:
«Sto entrando nell’ultimo capitolo, qualunque sia la sua durata. Devo trovare un equilibrio tra la fame competitiva e la consapevolezza che alcune realtà sono difficili da accettare. Ho dominato a lungo, ora sono Alcaraz e Sinner a dominare me».
Non nasconde che il livello dei due giovani campioni lo abbia scosso:
«Sono consapevole che oggi sono migliori di me. Mi hanno fatto dubitare di poter vincere ancora un Major».
Ma allo stesso tempo non perde la sua forza mentale:
«Quando entro in campo, penso sempre di poter vincere. La mia mentalità resta quella di un campione».
Accetta il sorpasso: “Era naturale che accadesse”
Djokovic vede con grande ammirazione l’ascesa dei due rivali più giovani:
«L’arrivo di Alcaraz e Sinner è fantastico per il tennis. La loro finale al Roland Garros è già nella storia. Sapevo che prima o poi sarebbe successo».
Il giorno in cui rimase incollato alla TV: la finale di Parigi
Djokovic racconta un retroscena divertente:
«Non guardo tennis quando perdo, preferisco staccare. Volevo uscire con mia moglie e mio figlio, ma loro volevano vedere la finale. Ho detto: “Ok, guardiamo un set”. Pensavo durasse due ore… Quando siamo tornati erano ancora lì a giocare. Alla fine abbiamo visto le ultime due ore. Era impossibile staccarsi».
“I campioni non sono semidèi. Siamo umani e falliamo come tutti”
Djokovic affronta uno dei temi più profondi dell’intervista: il falso mito dell’atleta invincibile.
«La pressione è reale. Fallire non ti rende debole. Anche Jordan diceva che tutti ricordano i tiri entrati, mai quelli sbagliati. Io ho perso il 50% delle finali Slam disputate. È normale».
“Vincere sempre è pericoloso: l’ego cresce e poi la vita ti colpisce forte”
Djokovic ricorda il periodo 2015-2016, quando raggiunse quasi 20 finali consecutive:
«Mi sentivo imbattibile, ma mentalmente è pericoloso. L’ego cresce e poi la realtà ti colpisce. A me successe con l’infortunio al gomito».
Il futuro di suo figlio nello sport
Parlando del figlio Stefan, 11 anni, il serbo si emoziona:
«Vuole giocare a tennis e questo mi emoziona e mi spaventa. Ha talento, ma non voglio essere il suo allenatore. Voglio essere suo padre. Se sceglierà il tennis, sarò al suo fianco al 100%».
Come vuole essere ricordato
Djokovic chiude con una frase che sintetizza l’essenza del campione e dell’uomo:
«Vorrei essere ricordato per i miei risultati, certo. Ma soprattutto come una persona che ha toccato il cuore degli altri. È quello che vorrei sulla mia lapide».
In un’intervista intensa, potente e umana, Djokovic mostra tutta la complessità di un campione che continua a cercare nuove motivazioni, pur sapendo che il tempo — e due fenomeni chiamati Alcaraz e Sinner — stanno cambiando lo scenario. Un ritratto sincero di un atleta che non smette di interrogarsi su sé stesso e sulla propria eredità.
Francesco Paolo Villarico
