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    Berdych critica la scelta di Mensik e Machac di giocare la Laver Cup: “Quella settimana poteva essere sfruttata meglio”

    Tomas Berdych, oggi capitano in Davis per la Rep. Ceca

    C’è un gran battage mediatico per scaldare l’atmosfera in vista dell’edizione 2025 della Laver Cup, da domani al via a San Francisco, tra la presenza del suo ideatore Federer a stimolare il talento ancora acerbo di Fonseca a gite turistiche dei protagonisti alla scoperta delle bellezze della Bay Area, come il leggendario penitenziario di Alcatraz. Ma c’è anche chi critica la scelta di giocare questa esibizione, sostenendo che si poteva usare meglio lo spazio della settimana. È Tomas Berdych a criticare la scelta dei suoi connazionali Jakub Mensik e Tomas Machac, in squadra per il team Europe rispettivamente come giocatore effettivo e prima riserva agli ordini del nuovo capitano Yannick Noah. Il capitano in Davis della Repubblica Ceca, reduce dalla favolosa affermazione negli USA nei qualifiers di Davis che ha aperto le porte alla sua nazionale alla Final 8 di Bologna, ha parlato in modo schietto, affermando di non condividere la scelta dei suoi due giocatori di disputare la ricca esibizione a squadre.
    “È la mia opinione personale, ma se fossero i ragazzi a chiedermelo, risponderei allo stesso modo” ha dichiarato l’ex n.4 al mondo alla stampa nazionale, dopo aver guidato la sua squadra al trionfo in Coppa Davis in Florida. “Per me, al momento, quella di giocare adesso la Laver Cup non sarebbe affatto un’opzione. Hanno già tanto alle spalle e molto altro ancora da affrontare nel corso della stagione”.
    “La Laver Cup a mio avviso è più adatta a giocatori già consolidati in posizioni di vertice. Capisco perché vogliano partecipare, ma quella settimana potrebbe essere sfruttata in maniera più efficace. È così che la vedo. Non che mi dia particolarmente fastidio, ma questo è il mio punto di vista” conclude Berdych, che ha giocato una volta l’esibizione, proprio l’edizione inaugurale nella “sua” Praga nel 2017.
    Parole che certamente non lasceranno indifferenti quelle di Berdych, ma con un fondamento molto solido. Mensik in particolare è attualmente al diciannovesimo posto nella Race to Turin; staccare il pass per le Finals è forse un obiettivo remoto, ma negli ultimi due mesi di tour ci sono tanti punti da assegnare, in tornei che si addicono assai alle sue caratteristiche, come gli indoor europei dove il suo servizio “bomba” e potenza nei colpi può essere quasi inarrestabile. Ma oltre a questa speranza di entrare nel lotto delle Finals, effettivamente il dopo US Open è un momento importante per riposo e preparazione: basta vedere la scelta di Jannik Sinner, bravissimo a sfruttare al meglio nelle scorse annate questo spazio per presentarsi preparato al massimo per il rush finale dell’annata. È curioso che un personaggio pacato come Berdych abbia punzecchiato due dei suoi migliori tennisti proprio durante il lancio di uno degli eventi meglio promossi nell’intera stagione, mostrando un lato che forse non conoscevamo.
    Marco Mazzoni  LEGGI TUTTO

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    Djokovic si racconta: “Il tennis è stato una piattaforma per crescere come persona. Per anni ho cercato di non far trasparire nulla, ero arrivato al punto di non esprimere alcuna emozione. Piansi per giorni dopo l’operazione al gomito, avevo giurato che mai l’avrei fatto”

    Novak Djokovic nel corso dell’intervista

    La libertà di un podcast lungo e rilassato ha dato l’occasione a Novak Djokovic di aprirsi e raccontare molto della sua vita, mentalità, interessi, incluso fragilità e debolezze che ha tenuto nascoste per anni e anni. Il campione serbo ha parlato a ruota libera (per quasi due ore!) nell’interessante Jay Shetty Podcast, spaziando non tanto sul tennis giocato quanto sulla vita, su valori, crescita personale e mentalità. Da uomo ormai maturo e consapevole, “Nole” ha fornito il suo punto di vista su molti temi, è un podcast complesso e interessante che vale la pena di essere ascoltato per intero. Qua riportiamo alcuni passaggi significativi, alcuni del tutto inediti, come quando il 24 volte campione Slam ha confessato di aver pianto per giorni poiché deluso dall’essersi sottoposto a un intervento al gomito, visto che aveva giurato a se stesso che mai avrebbe accettato di finire sotto i ferri in carriera. O come abbia sentito la necessità di cambiare mentalità e atteggiamento per uscire da quello che la narrazione sportiva “impone” agli atleti.
    La lunga intervista inizia con una domanda non banale: quanto ti è costato diventare Novak Djokovic? Interessante la risposta di “Nole”: “Innanzitutto devo essere grato a tutti coloro che sono stati intorno a me fin dalle prime fasi della mia giovinezza, persone che mi hanno spinto verso un percorso di crescita interiore, di protezione di me stesso con un approccio olistico alla mia vita, alla prevenzione degli infortuni, al recupero fisico e mentale. Ero giovane, non lo capivo all’inizio. Mi sono fidato della mia prima maestra (Jelena Gencic, ndr), lei mi ha educato anche fuori dal campo. All’inizio era due volte a settimane, poi di più, questo mi ha forgiato. Sono una persona che ha una memoria visuale, ho sempre osservato molto, anche degli altri giocatori. Lei mi ha introdotto dalla musica classica, allo scrivere per tenere fermi dei concetti. All’inizio questo era molto facile: chiudi gli occhi e immagina di sentirti dove vorresti essere una volta da giocatore adulto. È stata una partenza importante per me. Ho capito che il tennis non è solo uno sport individuale e chi è con te è fondamentale. Ho capito che il tennis non è solo correre dietro a una palla sognando di vincere Wimbledon. Il tennis per me è stato una piattaforma per crescere come persona, per lavorare dentro di me, l’ho iniziato a capire già da piccolo con la prima maestra. Sono una persona curiosa, voglio conoscere per diventare una persona migliore e non mi accontento mai di quello che già conosco. Ora che sono adulto e padre, sto cercando di bilanciare la famiglia e gli altri impegni che ho fuori dal campo insieme alla carriera, sono e mi sento ancora un tennista professionista. Ho lavorato molto su me stesso, ma continuo a stupirmi su quanto ancora sia ignorante di tante cose e debba continuare ad investire per arrivare ad una migliore conoscenza. A volte è difficile per me accettarlo. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentito imbattibile, come se potessi camminare sull’acqua, ma c’è anche l’altra faccia della medaglia quando le cose non vanno. Ci sono dei momenti meravigliosi in questo processo di conoscenza e scoperta ma anche altri difficili, duri da affrontare”.
    In una carriera lunga più di venti anni e avendo vinto tutto quello che c’era da vincere, è difficile trovare la motivazione ad andare avanti con la stessa spinta e intensità. “Penso di aver raggiunto in carriera tutto quello che potevo sognare, ma continuo a volerlo” continua Djokovic, “sono attivo sul tour proprio perché voglio ancora vincere e ispirare i giovani. Sento dentro questa esigenza di non essere mai abbastanza per me stesso, sento la forza dentro di testare i miei limiti fisici e mentali. Quando arrivi a 30 anni, inizi a pensare che i giorni del ritiro non sono più lontani… Le cose nel tempo sono cambiate, la cura del corpo è migliorata tantissimo e le carriere si sono allungate molto. Si guadagna bene vincendo e c’è la possibile di inserire nel proprio team persone che ti aiutano a restare sano e performare. La devozione alle ottimi abitudini per il proprio corpo e mente è qualcosa duro da mantenere. È importante avere intorno un ambiente che ti stimola e aiuta a questo sforzo, poi la cosa deve partire da dentro. Viviamo inoltre in una società che ci spinge a fare una vita con tantissime cose ed esperienze molto belle ma che non vanno nella giusta direzione, quindi è necessario una dedizione totale per uscire di questo circolo vizioso e restare focalizzati a quello che è importante per stare al meglio. Ho vinto Slam, medaglia d’oro per il mio paese… ora i miei obiettivi sono cambiati. Sono anche di avere una pace interiore”.
    Interessante anche un passaggio sulle emozioni, un conflitto interiore che l’ha accompagnato per anni, fino ad una svolta: “Nello sport, e ancor più nel tennis che è uno sport individuale, sembra quasi proibito mostrare emozioni, una vulnerabilità, perché così si pensa che tu si stia dando un vantaggio all’avversario. Questo fa parte anche della narrazione del gioco. Se piangi sei visto come un debole. Per anni ho cercato di essere duro, non far trasparire nulla per andare dritto visto gli obiettivi, e ho finito per chiudermi in me stesso. Ero arrivato ad un punto in cui non esprimevo alcuna emozione, addirittura anche con la mia ragazza, che poi è diventata mia moglie… ma in realtà sono una persona aperta, mi piace parlare ed esprimere i miei pensieri e sentimenti. Ho cambiato il mio approccio direi 10 anni fa, ma per tanto tempo mi sono uniformato alla narrazione prevalente”.
    Djokovic rivale un retroscena inedito relativamente agli infortuni: “Il mio peggior infortunio è stato al gomito, mi sono dovuto operare nel 2017. Non sono uno che prende antinfiammatori, ma nel tennis a volte giochiamo cinque giorni di fila e per sopravvivere ho dovuto farlo. Sono arrivato ad un punto nel quale avvertivo dolore anche prendendo la massima dose consentita di pillole antinfiammatorie, quindi anche se non volevo assolutamente ricorrere all’intervento, non ho avuto altra scelta. Avevo giurato a me stesso che non mi sarei mai operato in tutta la mia carriera, e per questo sono rimasto deluso da me stesso per averlo fatto, ho anche pianto per giorni per accettarlo. È successo, e ho fatto anche una artroscopia al ginocchio dopo il problema avvertito a Roland Garros. Il menisco era andato e non c’era alternativa. Ho giocato e finito quella partita in cui mi sono fatto male, anche se il medico mi disse subito in campo che la situazione non era affatto facile. Ho resistito e dopo una mezz’ora il dolore se n’è andato, ho vinto la partita. Ma all’indomani mi sono fatto una risonanza e la diagnosi è stata rottura del menisco. Mi sono dovuto ritirare dal torneo e operazione immediata, c’era Wimbledon dopo solo 3 settimane. Ricordo i discorsi col mio team… e col mio fisioterapista… Ci vogliono dalle 4 alle 6 settimane, ma alcuni atleti riescono ad aver recuperi miracolosi. Il fisio mi disse non pensare nemmeno per un secondo di poter giocare Wimbledon. Io non risposi niente, tutti i membri del team furono d’accordo. Poi dopo poco dissi a tutti di vedere come il mio corpo avrebbe risposto nelle due settimane successive, tanto posso cancellarmi dal torneo qualche giorno prima dell’inizio. Ero con le stampelle, ma mi sono messo con tutta la mia forza a cercare di recuperare, e ce l’ho fatta, sono arrivato in finale. Poi alle Olimpiadi ho vinto l’Oro. Dopo l’operazione, in un momento di grandissima difficoltà, qualcosa ha fatto click nella mia testa. Sentire il mio fisio dirmi quella cosa, di non pensarci nemmeno, è stata la molla di cui avevo bisogno. In quella situazione ho trovato un obiettivo, una sfida da vincere. È come nei nostri giorni, il bisogno di sentire una nuova sfida, un obiettivo da raggiungere”.
    Interessante poi il passaggio sulla motivazione prendendosi un nemico da sfidare e battere, anche tra il pubblico… “Gli atleti di massimo livello a un certo punto della loro carriera hanno bisogno di sfide, si nutrono di quello per andare avanti. Faccio mie le parole di Michael Jordan nella serie “Last Dance”, quando ha affermato che finiva per selezionare uno spettatore nel pubblico che gli stava dicendo di tutto per trasformarlo in un nemico, ma solo perché aveva bisogno nella sua testa di un nemico da battere. Mi riferisco a questo, anche se io non ho avuto per forza bisogno di fare lo stesso in ogni mia partita. Ho avuto molte esperienze non sempre semplici col pubblico nel corso della mia carriera… Soprattutto quando giocavo contro Federer o Nadal la grande maggioranza del pubblico era contro di me, è stata una sfida ma spiega anche da dove venga la mia forza mentale. Anche all’interno di contesti ostili, ho trovato una via per vincere la partita, trasformare quell’energia in benzina e non farmi abbattere”.
    Djokovic fornisce una visione di quello che potrebbe fare dopo il tennis: “Una delle mie grandi passioni e interessi attualmente è quello che potrei definire come salute, sentirsi bene, cura di se stessi. Mi immagino sempre più coinvolto in attività che possano portare le persone a prendersi cura del proprio benessere: come si mangia, si beve, si fa attività, si dorme, e via dicendo. Per esempio moltissima gente, incluso atleti di massimo livello, non capiscono l’importante di idratare adeguatamente le proprie cellule. È cruciale alla nostra salute e non solo nello sport. Non è facile assumere tutto dall’alimentazione per questo avere degli integratori può aiutare, come escludere dal proprio corpo moltissime sostanze che provocano dei processi infiammatori che causano molti problemi di salute. Nel mondo ci sono milioni di diete, ma sull’idratazione sono tutti d’accordo, è una parte decisiva della nostra salute”.
    Il suo migliore e peggiore giorno in campo: “Il migliore è stato vincere l’Oro olimpico per il mio paese nel 2024, ha sorpassato anche l’emozione del vincere Wimbledon per la prima volta. Il peggiore… direi ancora alle Olimpiadi, quando a Rio 2016 persi la possibilità di vincere l’oro. Ero con dei problemi al polso, non sapevo se giocare o meno, e persi da Del Potro. Ero al picco della mia carriera, avevo vinto tutti e quattro gli Slam, ero nel momento più dominante della mia vita, e arrivai a Rio sentendo problemi al polso. Il draw è stato pessimo, Del Potro all’esordio, e persi. In quel momento ho sentito che il mio mondo fosse crollato. Le Olimpiadi si giocano ogni quattro anni e arrivarci al massimo non è affatto scontato. Le ho vinte arrivando in un momento difficilissimo e per quello è così speciale, a 37 anni…”.
    “Il mio avversario più tosto mentalmente? Me stesso, di gran lunga…” afferma Novak, “mentre fisicamente il più duro è stato Nadal. Le battaglie con lui sono stato incredibili, come la finale degli Australian Open 2012 dopo quasi sei ore di partita. Dopo il match durante la premiazione ci siamo entrambi piegati con le gambe che tremavano, tanto che qualcuno è arrivato con due sedie. Avevo entrambi i calzini macchiati di sangue per quanto avevo speso, ma con l’adrenalina della partita ero riuscito a resistere a tutto. Quando i muscoli si sono rilassati non riuscivo nemmeno a camminare”.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Rune: “La Laver Cup è l’evento preferito per molti giocatori, anche più degli Slam”

    Rune con la casacca del team Europe (foto Laver Cup)

    Holger Rune cavalca l’onda mediatica da qualche giorno e le sue ultime affermazioni lo portano ancor più sulla cresta. Il danese dopo la rocambolesca – e per lui sfortunata – presenza in Davis Cup a Marbella, è volato negli USA per prendere parte alla Laver Cup, ricca esibizione quest’anno in scena a San Francisco. Sarà curioso vedere all’opera ex campioni assai carismatici come Noah per il team europeo e Agassi per quello del resto del mondo. Una tre giorni a squadre che fa molto discutere per mille motivi, tuttavia è organizzata in modo impeccabile, ha portato alcune interessanti novità riprese poi da altri tornei e funziona molto in tv, con ascolti altissimi di spettatori che assistono a match ben giocati ma con più leggerezza, e con l’effetto squadra e panchina che piace molto. A detta di Rune, piace tantissimo ai giocatori, addirittura più di ogni altro torneo.
    “Ho parlato con molti giocatori e dicono che è uno degli eventi più divertenti in cui giocare, un evento grandioso”, afferma Rune, citando Alexander Zverev e Stefanos Tsitsipas tra coloro che hanno parlato con entusiasmo della settimana. “Per molti è l’evento preferito, anche più degli Slam”. Un’affermazione questa a dir poco forte, che sicuramente non lascerà indifferenti gli appassionati e commentatori in un periodo nel quale il fiorire di molte esibizioni ha portato non poche polemiche, visto che coloro che giocano a destra e a manca eventi extra calendario ATP poi spesso si lamentano della lunghezza della stagione.
    “Ho grandi aspettative, ma soprattutto mi divertirò davvero molto” continua Rune parlando da San Francisco. “Non capita spesso di giocare come una squadra, quindi penso che sia fantastico. Darò il meglio in questo ambiente. Non vedo l’ora di giocare. Voglio portare molta energia e intensità alla mia squadra”.
    Mario Cecchi LEGGI TUTTO

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    Macci (ex coach di Serena e Roddick) mette in guardia Sinner: “Attenzione a non creare nuovi problemi cambiando troppo il gioco”

    Jannik Sinner (foto Getty Images)

    Il mondo del tennis da giorni si interroga su quali possono essere i futuri scenari al vertice dopo l’esito netto della finale di US Open, con Carlos Alcaraz dominante su Jannik Sinner. Tanta differenza al servizio, ma non solo, tutto a favore dello spagnolo che con il successo a New York ha anche scalzato l’italiano dal vertice del ranking ATP. Importante è stata l’autocritica di Sinner, che dopo la partita ha masticato amaro – pur con la consueta pacatezza e lucidità di analisi – affermando che il suo tennis in finale è stato “prevedibile”, parlando chiaramente della necessità di lavorare ancor più duramente per introdurre qualche aggiustamento tattico e novità.
    Molte sono state le reazioni a queste significative parole di Jannik, disposto a concedere di più agli avversari nei prossimi tornei pur di testare qualche novità e così cercare di diventare un giocatore più vario. La maggior parte degli analisti ha commentato con favore questa scelta dell’azzurro, ma c’è anche una voce discorde, e di una certa rilevanza.
    Proprio sul punto di cambiare e mettere mano al suo gioco, un tennis così solido da portarlo a dominare il tour per un anno e mezzo, è intervenuto Rick Macci, coach inserito nella Hall of Fame ed ex allenatore, tra gli altri, di Serena Williams, Andy Roddick e Maria Sharapova. Il 70enne allenatore statunitense ha messo in guardia Jannik sul non esagerare nello “smontare” un tennis che potrà anche essere poco vario ma che è assolutamente di qualità e consistente. 
    “Certo, Sinner deve fare qualche correzione”, ha scritto Macci in un commento sul social X. “Ogni giocatore ha una scelta e ha bisogno di sentire una voce diversa. Ma non è obbligato ad ascoltarla a tutti i costi. Bisogna stare molto attenti, perché quando provi a risolvere un problema rischi di crearne un altro“.
    Un avvertimento di buon senso e figlio della grande esperienza del coach americano. Alla fine la bontà di una scelta la si misura anche dall’equilibrio e da un’analisi attenta di costi – benefici, come spiegano le grandi leggi dell’economia. Sull’erba di Wimbledon un Sinner in grandissima condizione atletica e molto determinato era riuscito ad andare molto sopra al livello di Alcaraz, bloccato in un pressing talmente asfissiante da portarlo ad dire al suo angolo “sta giocando molto, molto meglio di me”. Poi sul cemento in Nord America è stato lo spagnolo ad arrivare meglio, fisicamente e tecnicamente, tanto da giocare un US Open quasi impeccabile e vincere con pieno merito la finale sull’italiano. Una partita che ha fatto affermare a Jannik “devo portare qualcosa di nuovo del mio gioco”. Ma attenzione a non esagerare: minare le fondamenta di un tennis così concreto, solido, aggressivo e vincente potrebbe essere un rischio importante, come afferma Macci.
    Non resta che attendere la tournée in Asia, dove vedremo di nuovo in campo Jannik e potremo valutare se testerà qualcosa di nuovo. Dopo US Open 2023, proprio in Cina, sbocciò il Sinner “Maximo”, quello che con alcune settimane di lavoro mirato riuscì a colmare alcune lacune divenne quasi imbattibile, servendo benissimo e partendo a razzo verso l’Olimpo. A due anni di distanza, con 65 settimane da n.1, 4 Slam vinti, 2 Davis e tantissimo altro, sarà curioso ritrovarlo in campo. Con ancor più voglia di vincere imparando da problemi e sconfitte.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Pennetta: “Non ho rimpianti per aver detto basta subito dopo aver vinto US Open. Sono grata per quello che abbiamo costruito con Fabio”

    Flavia Pennetta

    Flavia Pennetta è appena rientrata in Italia da New York, dove dieci anni fa (per l’esattezza il 12 settembre 2015) visse la pagina più straordinaria della sua vita sportiva, vincendo il titolo a US Open in finale contro la sua amica di sempre, Roberta Vinci, pugliese come lei e compagna in quel titolo di doppio a Roland Garros junior (1999) che la fece conoscere agli appassionati italiani. Proprio dove è entrata nel gotha del tennis internazionale la brindisina è tornata per girare un documentario che ripercorre quella cavalcata pazzesca di dieci anni fa, e al rientro è stata intervistata dalla Gazzetta dello Sport. Flavia ha spaziato su molti temi, tornando sulle emozioni di quel successo e affermando di non aver alcun pentimento per aver detto clamorosamente “basta” nel corso della premiazione, con in mano la coppa più prestigiosa della sua carriera. Ha anche parlato della sua vita con Fabio Fognini, la prima estate insieme senza tennis visto che il marito si è ritirato a Wimbledon dopo un match straordinario vissuto sul Centre Court con Alcaraz, e anche su di un possibile futuro di Fabio come coach. Questi i passaggi più significativi dell’intervista.
    “È stato molto emozionante tornare su quel campo, anche vuoto, mi ha riportata indietro come se stessi rigiocando la finale” racconta Pennetta. “Ho rivissuto la partita in pieno ed è stato bellissimo, da brividi. Questa volta, però, ho avuto anche il tempo di vedere New York in modo diverso: quando sei lì per il torneo sei così concentrata che non ti accorgi davvero della città che ti circonda. Questa volta, invece, mi sono lasciata avvolgere. A volte è capitato di rivivere quella finale, ma le immagini si fermavano sempre a quando piangevo prima di entrare in campo. Il momento della vittoria, invece, non l’ho mai rivissuto. Credo fosse un sogno che è diventato reale, e quindi non ho avuto bisogno di viverlo ancora. Sa, i sogni nascono dai desideri, e quando li realizzi”.
    Flavia oggi collabora come opinionista per Sky, un ruolo diverso che l’ha riavvicinata al tennis in altra veste: “All’inizio non mi piaceva guardare il tennis. Seguivo solo Fabio, ma non avevo voglia di vedermi un match intero per piacere. Ora invece sì: mi diverto a seguire, ad analizzare, a capire. È un approccio diverso, che ho imparato ad apprezzare col tempo. A New York mi sono vista tutte le partite degli italiani”.
    Il discorso vira su Fognini, la loro vita di coppia e familiare: “Sono orgogliosa di tutto quello che abbiamo costruito insieme. Mi sento grata per quello che ho avuto. Ogni tanto mi spavento quasi, perché so che non è scontato essere così fortunati. In dieci anni ho vissuto tutto: carriera, vittorie, famiglia. Non ho mai rimpianto di aver detto basta quel giorno. La prima estate insieme senza tornei? Impegnativa! Scherzi a parte, gli equilibri sono stati diversi dagli altri anni. Fabio non è abituato: si chiedeva sempre ‘e ora cosa facciamo?’. In vacanza, con i bambini, stai seduto, controlli e speri che nessuno si faccia male”.
    Flavia confessa che oggi non le manca la dura vita da professionista: “L’ho amata nel bene e nel male ma non mi manca. Una cosa bella degli sportivi è che hanno la possibilità di ‘andare in pensione’ presto e scegliere cosa fare della loro vita. Io ho realizzato i miei sogni, persino più grandi di quanto immaginassi”.
    Nemmeno ha pensato di fare la allenatrice, mentre Fabio… “Voglia di allenare? Non seriamente. Mi piace giocare ogni tanto, dare un consiglio, ma non mi vedo come coach a tempo pieno. Ho trovato il mio equilibrio così. Fabio? Lui posso immaginarlo come super coach, ma credo che gli serva ancora un po’ di tempo per staccare e capire se vuole davvero intraprendere quella strada. Non è semplice, devi prima “uccidere” il giocatore e poi rinascere coach: le dinamiche cambiano completamente”.
    Sarà interessante rivivere l’eccezionale US Open 2015 di Flavia, nel documentario di prossima uscita. Una finale Slam tutta italiana, un sogno proibito che grazie a Flavia e Roberta divenne realtà.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Henman applaude Alcaraz: “Non ha mai servito così bene in vita sua, e così ha disinnescato la principale arma di Sinner, la risposta”

    Tim Henman

    Sono passate quasi 24 ore dalla straordinaria prestazione di Carlos Alcaraz nella finale di US Open ma stenta a spegnersi l’eco di una vittoria così totale su Jannik Sinner da aver sorpreso quasi tutti, anche in Spagna. La maggior parte degli analisti ed ex giocatori si aspettava una partita più tesa e tirata, confidando nella potenza e classe dell’italiano. Carlitos invece è andato a mille all’ora e ha demolito la resistenza dell’altoatesino forte di un colpo mai così splendente finora nella sua giovane carriera: il servizio. Enorme è stato il gap tra i due giocatori nel rendimento della battuta, tanto che tra i vari fattori a spostare l’equilibrio pro-Alcaraz il servizio è stato certamente il più importante. Così la pensa anche Tim Henman, che parlando a Sky Sport si è detto stupefanno dalla qualità al servizio di Alcaraz. Un rendimento così alto della battuta ha portato a Carlos un doppio beneficio: punti importantissimi ed aperture di campo per i suoi colpi vincenti, abbinato al disarmare il colpo complessivamente più insidioso di Sinner, la risposta.
    “È stata una partita meno bella rispetto alle loro altre due finali Slam, ed è stata una lezione di tecnica di gioco” afferma l’ex top 5 britannico. “Non ho mai visto Alcaraz servire in quel modo in carriera, non si era avvicinato ad una prestazione del genere nemmeno nelle sue migliori partite. Quando si pensa ai grandi battitori del tennis, mai avrei mai pensato ad Alcaraz. Dopo questa partita non posso fare a meno di includere Carlos tra i migliori in questa categoria. Contro uno dei migliori ribattitori al mondo, Sinner, il servizio di Alcaraz è stato assolutamente fenomenale”.
    Velocità ma soprattutto costanza di rendimento, quello che è mancato proprio a Jannik. “Carlos è riuscito a piazzare i servizi con una velocità e una costanza incredibili” continua Henman. “Ha lasciato a Sinner pochissime opportunità di risposta nei suoi game di servizio, il che ha permesso ad Alcaraz di giocare con ancora più libertà e sfogarsi, scatenando la sua potenza col diritto. Si può vedere la gioia che emana da questa prestazione. È stata perfetta e completa. Sinner non giocato al meglio in risposta, ma il merito è di quanto ha servito bene Alcaraz”.
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    Ivanov (campione a US Open junior) sulle orme di Dimitrov. Toni Nadal: “Il diritto di Ivan può diventare il più temibile del tour Pro”

    Ivan Ivanov, campione a US Open 2025 junior

    Corsi e ricorsi storici. È davvero curioso riavvolgere il nastro del tempo e tornare al 2008 quando un giovanissimo Grigor Dimitrov trionfò all’edizione junior di US Open dopo aver vinto Wimbledon. Fu una doppietta storica per la Bulgaria e tutti gli amanti del tennis “classico” già pregustavano le gesta di questo giovane, ben presto eletto a discepolo di King Roger per movenze ed eleganza. Sono passati 17 anni e la storia si ripete, almeno a livello giovanile: Ivan Ivanov ha sbaragliato la concorrenza a US Open junior, battendo in una finale tutta bulgara il connazionale Alexander Vasilev e portando a casa il secondo Slam giovanile dopo quello vinto a Wimbledon lo scorso luglio.
    In questi anni il gioco è cambiato assai, tanto che a legare Ivanov e Dimitrov c’è il passaporto e poco più. Ivan infatti è un “discepolo” del tennis di pressione e grande rotazione attuale, un gioco consistente e di grande potenza affinato presso la Academy di Rafa Nadal a Manacor, dove zio Toni stravede per Ivanov affermando che “il diritto di questo ragazzo può diventare il più temibile di tutto il tour Pro”. Un’affermazione importante, ma il mentore di Rafa spesso vede molto lontano… È presto per ipotizzare scenari clamorosamente vincenti per questo 16enne, tuttavia il suo gioco è molto interessante e i due Slam giovanili se li è portati a casa dominando, con un solo set ceduto nei due tabelloni.

    2008: Grigor Dimitrov goes back to back at Wimbledon and the US Open 🏆🏆
    2008: Ivan Ivanov is born 👶
    Seventeen years later Ivanov follows the same path to glory! 🇧🇬 pic.twitter.com/ywIHrKQEif
    — US Open Tennis (@usopen) September 6, 2025

    “Ho iniziato a giocare a tennis grazie a mio padre. Guardavamo molte partite insieme e ho voluto provarci. Mi piaceva, ed è lì che è iniziato tutto”, racconta il sedicenne Ivanov a ESPN dopo la vittoria a New York. “I Big 3, Rafa, Novak e Roger, sono stati i miei modelli. Sono grato di praticare lo stesso sport che praticavano loro e di competere negli stessi tornei in cui hanno trionfato”.
    Il suo talento l’ha portato ben presto all’attenzione nei circuiti giovanili, fino alla decisione di volare alle Baleari per continuare la sua formazione tecnica e fisica presso l’accademia di Rafael Nadal. Qua passa ore ed ore in campo con grande impegno (“È un bel lavoratore” afferma Toni) allenandosi con altri giovani di qualità e i tanti Pro spesso frequentano la struttura, ma concilia i suoi impegni con lo studio. “È importante continuare a studiare. Ho fiducia perché mi piace molto imparare. A volte è complicato, ma mi piace molto” afferma Ivan.
    Nella finale di Wimbledon Junior lo scoro luglio Ivanov sconfisse lo statunitense Ronit Karki per 6-2 6-3 in 57 minuti, bissando l’impresa del connazionale Dimitrov, primo e fino allora unico tennista bulgaro ad aver vinto un titolo del Grande Slam giovanile. L’appetito vien mangiando, e riecco Ivanov abbattere uno dopo l’altro tutti gli avversari a furia di tennis di pressione e un diritto così carico di spin e potenza da diventare irresistibile. La sua palla è potente, vigorosa, sul “duro” di Flushing Meadows salta altissima e diventa difficile da governare. C’è intensità e aggressività nel suo tennis, troppa anche per il connazionale Vasilev, domato per 7-5 6-3 nella finale di US Open.
    “Rafa è un grande esempio per me, soprattutto per la sua spinta, il suo top spin e il suo stile di gioco. Lo adoro!” racconta Ivanov. “Ho imparato tutto da lui. Avere un esempio come Rafa, la sua disciplina, la cultura del lavoro che metteva in campo ogni giorno, è la cosa migliore che si possa avere alla mia età. Sono un giocatore aggressivo da fondo campo, ho un buon servizio ma stiamo lavorando per renderlo sempre migliore. I miei idoli? Guardo a Sinner e Alcaraz, sono diversi ma in realtà hanno in modo di stare in campo simile perché sono sempre aggressivi e vogliono comandare il gioco”.
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    McEnroe: “Non sarei sorpreso se Djokovic si ritirasse”

    John McEnroe

    Raggiungere quattro semifinali Slam in una singola stagione è un risultato eccezionale per qualsiasi tennista, ma… forse non sufficiente se ti chiami Novak Djokovic, hai 38 anni e la motivazione a continuare è cercare di vincere un altro Major per toccare quota 25, quello che sarebbe il record assoluto nel tennis in singolare. Il serbo è stato onesto dopo la sconfitta subita ieri da Alcaraz: questi due ragazzi sono più forti fisicamente di me e reggere contro di loro al loro livello di intensità è molto difficile. Dopo due set tiratissimi “non ne avevo più” ha affermato con onestà il serbo. Il futuro di “Nole” fa discutere il mondo del tennis: Djokovic afferma di voler insistere nel 2026, ma avrà ancora la motivazione per insistere e spingere al massimo il proprio fisico, a 39 anni, con due avversari così forti e al picco della propria carriera?
    John McEnroe è dubbioso sul futuro del 24 volte campione Slam di Belgrado, tanto da arrivare ad affermare che non sarebbe per niente sorpreso se Novak cambiasse idea e annunciasse la decisione di smettere. L’ha affermato in uno studio da New York del network ESPN, soffermandosi sul momento non facile di “Nole” dopo aver perso, ancora in tre set, contro uno dei due dominatori del tennis attuale dopo le sconfitte patite da Sinner sia Parigi che Wimbledon, lontanissimo dal mettere in seria in difficoltà l’italiano, come è accaduto ieri lo spagnolo a US Open.
    “In un certo senso non sarei sorpreso se si ritirasse”, afferma McEnroe, “ma quello che mi sorprenderebbe è che decidesse di giocare ancora un’altra annata. Quella sarebbe la mia scommessa. È stato il terzo miglior giocatore quest’anno, ed è quello che è effettivamente è stato”.
    Parole chiare, come è nello stile di McEnroe, anche condivisibili vista la situazione ed età di Djokovic, con due fortissimi e giovani avversari che nel 2025 per lui sono stati inarrivabili, eccetto la partita vinta contro Alcaraz a Melbourne. Un match disputato a gennaio, quindi nove mesi fa. Oggi la situazione sembra diversa, con Sinner e Alcaraz saldamente davanti a tutti. Djokovic incluso.
    Mario Cecchi LEGGI TUTTO