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    Svitolina: “Lo sport fuori dalla politica? Non si può restare neutrali di fronte a guerre e atrocità”

    Elina Svitolina

    Lo sport deve essere lontano dalla politica, ma di fronte ad atrocità e guerre non si può stare zitti, è necessario prendere posizione portando con orgoglio un messaggio di pace e resistenza. Così Elina Svitolina, donna di carattere, grande lottatrice in campo e fuori, ribadisce tutte le proprie convinzioni prima di scendere in campo in Billie Jean King Cup in Cina, dove guiderà la squadra ucraina contro la Spagna. Interpellata dal quotidiano spagnolo AS, Elina ha parlato della sua annata e oltre, affermando di aver fiducia nelle qualità della sua nazionale impegnata a Shenzhen. Il discorso si è fatto assai più serio quando è tornata sulla guerra che sta sconvolgendo il suo paese, ma anche sulla questione di Israele e delle molestie che tutte le giocatrici ormai subiscono quotidianamente via social. Questi alcuni dei passaggi più interessanti dell’intervista alla 31enne di Odessa.
    “La Billie Jean King Cup  è uno degli appuntamenti più speciali nell’annata, insieme ai Giochi Olimpici” afferma Svitolina. “Giocare per il mio paese è qualcosa di speciale, sono molto orgogliosa di far parte della squadra e di essere presente in queste Finali. È come un Mondiale del tennis ed è un’enorme opportunità per sventolare la bandiera dell’Ucraina”.
    Chiedono a Elina se questa esperienza è diventata ancora più profonda da quando è iniziata l’invasione russa alla sua nazione. “Sì, decisamente. Ogni volta che l’Ucraina gioca, ogni volta che entriamo in campo, provo un groviglio di emozioni” conferma Svitolina. “Scendere in campo per il mio Paese, vedere le mie compagne sostenermi nelle battaglie più dure… tutto questo porta con sé pressione, ma anche emozioni fortissime. Allo stesso tempo, però, sono orgogliosa di rappresentare l’Ucraina su un palcoscenico così grande e di provare a regalare vittorie alla nostra gente. Dopo l’inizio della guerra percepisco chiaramente che il mio ruolo pubblico oltre il tennis è cresciuto. Partecipo a vari eventi e progetti, ho la mia fondazione e sostengo altre piattaforme di raccolta fondi. Voglio avere una vita anche dopo il tennis, e non sai mai quando quel momento arriverà, quindi cerco di essere utile alla mia gente, al mio paese, e di dare sempre il massimo. Questa è la mia motivazione quotidiana: usare la mia voce, la mia visibilità. Dopo tanti anni in campo, ormai è qualcosa che va oltre il tennis“.
    La giocatrice ucraina spesso affronta avversarie russe e bielorusse e al termine di ogni match non stringe mai loro la mano. Una scelta di coerenza: “Posso parlare solo dal mio punto di vista. Per me, da ucraina, è un dolore enorme svegliarmi ogni giorno con notizie di missili russi che cadono sul mio paese, distruggendo e uccidendo. Per questo penso che ogni forma di propaganda debba fermarsi. Non voglio avere nulla a che fare con un governo che infligge simili atrocità alla mia gente. Io desidero soltanto la pace per l’Ucraina, poter tornare senza la paura per la mia vita o quella della mia famiglia”.
    Chiedono a Svitolina un parere sulla situazione di Israele che, a differenza di Russia e Bielorussia, non è al momento escluso da competizioni nazionali nonostante la gravissima situazione umanitaria in Palestina. Secca la risposta della giocatrice: “Credo che questa sia una decisione che spetta alle organizzazioni. Non ho abbastanza informazioni su quel caso specifico, ma penso che non si possa restare neutrali di fronte a guerre e atrocità. Alcuni sostengono che lo sport debba restare fuori dalla politica, ma quando diventa uno strumento di propaganda non può esserlo. Non si può promuovere un genocidio attraverso gli sportivi. Sono stati fatti alcuni passi, come il ritiro delle bandiere o la limitazione della partecipazione, ma bisognerebbe adottare misure più severe”.
    Il discorso vira sulle molestie online, peggiorate a suo carico dopo l’inizio dell’aggressione russa all’Ucraina. “Ricevo questo tipo di messaggi da molti anni. A volte è terribile, certo. Penso che dovrebbero essere prese misure concrete per proteggere in particolare le più giovani, perché io in qualche modo mi sono abituata, ma per chi muove i primi passi può essere molto dura. È una realtà tremenda, soprattutto quando arrivano minacce dirette. L’odio è aumentato per via di come difendo l’Ucraina. Quasi in ogni foto ricevo commenti d’odio, non solo per le sconfitte in campo, ma per la mia posizione. Ho la pelle dura, anche se a volte non è facile. Amo il mio Paese e non cambierei nulla delle mie scelte: questo, purtroppo, è il prezzo da pagare”.
    Ultima domanda sul “dopo”. Elina si vede in campo a formare le nuove generazioni, in difficoltà oggi per la guerra. “Prima di tutto voglio continuare a lavorare con la mia fondazione, che sostiene i giovani tennisti ucraini. Mi piacerebbe aprire club, facilitare l’accesso a campi e strutture sportive per i bambini e ispirarli, perché lo sport può offrire tanto. Con la guerra e ancora di più quando finirà sarà fondamentale prendersi cura della nuova generazione. Lo sport può aiutarli a liberarsi dallo stress e a tornare a una vita normale. Inoltre, ho già alcune opportunità in ambito imprenditoriale legato allo sport, ma voglio prendermi il tempo necessario per scegliere bene”.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Kafelnikov dubbioso sul futuro di Medvedev: “Non trarrà beneficio da cambiamenti radicali”

    Daniil Medvedev

    Oltre al rientro di Matteo Berrettini, uno dei focus principali dell’ATP 250 di Hangzhou sarà ritrovare in campo Daniil Medvedev. Dopo la burrascosa sconfitta al primo turno a US Open contro Bonzi, il moscovita si è preso qualche settimana di riposo e preparazione con il suo nuovo staff, guidato dallo svedese Thomas Johansson (ex campione agli Australian Open) che ha rimpiazzato lo storico coach Cervara. Medvedev manca il successo in un torneo da Roma 2023, ma più di un titolo è caccia della miglior versione di se stesso, smarrita da tempo. Anche il ranking langue, passato dal contendere la prima posizione mondiale al n.18 attuale. Facendo tabula rasa dei suoi più stretti collaboratori (incluso il preparatore atletico), Daniil cerca un rilancio ma non sarà affatto un percorso facile.
    Ne è convinto anche il connazionale Evgeny Kafelnikov, dubbioso sulla capacità di reinventarsi di Daniil. In un’intervista concessa all’agenzia russa TASS, il due volte campione Slam e oro olimpico ha espresso scetticismo sul futuro del connazionale, sottolineando come allo stadio attuale di carriera nemmeno una rivoluzione porterà benefici concreti.
    “Il problema è questo: atleti con uno status come il suo non vogliono ascoltare nessuno, non percepiscono nessuno”, dichiara seccamente Kafelnikov. “Chiunque venga messo al fianco di Medvedev, lui non lo vedrà mai come un vero allenatore o mentore, e non seguirà tutto ciò che gli viene detto. Punto”.
    Il dubbio, per l’ex numero uno del mondo, riguarda soprattutto le motivazioni di Medvedev: “Ha già vinto tantissimi titoli. Non so cosa voglia ancora ottenere. Vincere un altro Slam? Tornare in cima al ranking? Non lo so, mi sembra uno scenario per lui molto difficile”. Secondo Kafelnikov, la situazione non è affatto rosea: “Purtroppo non è come molti vogliono credere. L’anno prossimo compirà 30 anni, ed è un’età in cui cambiamenti radicali non hanno più molto senso“.
    Parole molto dure che mettono in serio dubbio le possibilità di Medvedev di ritrovare un tennis capace di battagliare alla pari con i migliori. Il 2025 del russo è stato assai deludente, in particolare negli Slam, dove per anni è stato uno dei più forti mentre in questa stagione ha vinto solo una partita nei quattro Major disputati. Non resta che attendere il responso del campo già dalla trasferta asiatica, per vedere che Medvedev troveremo e valutare le sue motivazioni e tenuta mentale, assai traballante nell’ultimo periodo.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Djokovic si racconta: “Il tennis è stato una piattaforma per crescere come persona. Per anni ho cercato di non far trasparire nulla, ero arrivato al punto di non esprimere alcuna emozione. Piansi per giorni dopo l’operazione al gomito, avevo giurato che mai l’avrei fatto”

    Novak Djokovic nel corso dell’intervista

    La libertà di un podcast lungo e rilassato ha dato l’occasione a Novak Djokovic di aprirsi e raccontare molto della sua vita, mentalità, interessi, incluso fragilità e debolezze che ha tenuto nascoste per anni e anni. Il campione serbo ha parlato a ruota libera (per quasi due ore!) nell’interessante Jay Shetty Podcast, spaziando non tanto sul tennis giocato quanto sulla vita, su valori, crescita personale e mentalità. Da uomo ormai maturo e consapevole, “Nole” ha fornito il suo punto di vista su molti temi, è un podcast complesso e interessante che vale la pena di essere ascoltato per intero. Qua riportiamo alcuni passaggi significativi, alcuni del tutto inediti, come quando il 24 volte campione Slam ha confessato di aver pianto per giorni poiché deluso dall’essersi sottoposto a un intervento al gomito, visto che aveva giurato a se stesso che mai avrebbe accettato di finire sotto i ferri in carriera. O come abbia sentito la necessità di cambiare mentalità e atteggiamento per uscire da quello che la narrazione sportiva “impone” agli atleti.
    La lunga intervista inizia con una domanda non banale: quanto ti è costato diventare Novak Djokovic? Interessante la risposta di “Nole”: “Innanzitutto devo essere grato a tutti coloro che sono stati intorno a me fin dalle prime fasi della mia giovinezza, persone che mi hanno spinto verso un percorso di crescita interiore, di protezione di me stesso con un approccio olistico alla mia vita, alla prevenzione degli infortuni, al recupero fisico e mentale. Ero giovane, non lo capivo all’inizio. Mi sono fidato della mia prima maestra (Jelena Gencic, ndr), lei mi ha educato anche fuori dal campo. All’inizio era due volte a settimane, poi di più, questo mi ha forgiato. Sono una persona che ha una memoria visuale, ho sempre osservato molto, anche degli altri giocatori. Lei mi ha introdotto dalla musica classica, allo scrivere per tenere fermi dei concetti. All’inizio questo era molto facile: chiudi gli occhi e immagina di sentirti dove vorresti essere una volta da giocatore adulto. È stata una partenza importante per me. Ho capito che il tennis non è solo uno sport individuale e chi è con te è fondamentale. Ho capito che il tennis non è solo correre dietro a una palla sognando di vincere Wimbledon. Il tennis per me è stato una piattaforma per crescere come persona, per lavorare dentro di me, l’ho iniziato a capire già da piccolo con la prima maestra. Sono una persona curiosa, voglio conoscere per diventare una persona migliore e non mi accontento mai di quello che già conosco. Ora che sono adulto e padre, sto cercando di bilanciare la famiglia e gli altri impegni che ho fuori dal campo insieme alla carriera, sono e mi sento ancora un tennista professionista. Ho lavorato molto su me stesso, ma continuo a stupirmi su quanto ancora sia ignorante di tante cose e debba continuare ad investire per arrivare ad una migliore conoscenza. A volte è difficile per me accettarlo. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentito imbattibile, come se potessi camminare sull’acqua, ma c’è anche l’altra faccia della medaglia quando le cose non vanno. Ci sono dei momenti meravigliosi in questo processo di conoscenza e scoperta ma anche altri difficili, duri da affrontare”.
    In una carriera lunga più di venti anni e avendo vinto tutto quello che c’era da vincere, è difficile trovare la motivazione ad andare avanti con la stessa spinta e intensità. “Penso di aver raggiunto in carriera tutto quello che potevo sognare, ma continuo a volerlo” continua Djokovic, “sono attivo sul tour proprio perché voglio ancora vincere e ispirare i giovani. Sento dentro questa esigenza di non essere mai abbastanza per me stesso, sento la forza dentro di testare i miei limiti fisici e mentali. Quando arrivi a 30 anni, inizi a pensare che i giorni del ritiro non sono più lontani… Le cose nel tempo sono cambiate, la cura del corpo è migliorata tantissimo e le carriere si sono allungate molto. Si guadagna bene vincendo e c’è la possibile di inserire nel proprio team persone che ti aiutano a restare sano e performare. La devozione alle ottimi abitudini per il proprio corpo e mente è qualcosa duro da mantenere. È importante avere intorno un ambiente che ti stimola e aiuta a questo sforzo, poi la cosa deve partire da dentro. Viviamo inoltre in una società che ci spinge a fare una vita con tantissime cose ed esperienze molto belle ma che non vanno nella giusta direzione, quindi è necessario una dedizione totale per uscire di questo circolo vizioso e restare focalizzati a quello che è importante per stare al meglio. Ho vinto Slam, medaglia d’oro per il mio paese… ora i miei obiettivi sono cambiati. Sono anche di avere una pace interiore”.
    Interessante anche un passaggio sulle emozioni, un conflitto interiore che l’ha accompagnato per anni, fino ad una svolta: “Nello sport, e ancor più nel tennis che è uno sport individuale, sembra quasi proibito mostrare emozioni, una vulnerabilità, perché così si pensa che tu si stia dando un vantaggio all’avversario. Questo fa parte anche della narrazione del gioco. Se piangi sei visto come un debole. Per anni ho cercato di essere duro, non far trasparire nulla per andare dritto visto gli obiettivi, e ho finito per chiudermi in me stesso. Ero arrivato ad un punto in cui non esprimevo alcuna emozione, addirittura anche con la mia ragazza, che poi è diventata mia moglie… ma in realtà sono una persona aperta, mi piace parlare ed esprimere i miei pensieri e sentimenti. Ho cambiato il mio approccio direi 10 anni fa, ma per tanto tempo mi sono uniformato alla narrazione prevalente”.
    Djokovic rivale un retroscena inedito relativamente agli infortuni: “Il mio peggior infortunio è stato al gomito, mi sono dovuto operare nel 2017. Non sono uno che prende antinfiammatori, ma nel tennis a volte giochiamo cinque giorni di fila e per sopravvivere ho dovuto farlo. Sono arrivato ad un punto nel quale avvertivo dolore anche prendendo la massima dose consentita di pillole antinfiammatorie, quindi anche se non volevo assolutamente ricorrere all’intervento, non ho avuto altra scelta. Avevo giurato a me stesso che non mi sarei mai operato in tutta la mia carriera, e per questo sono rimasto deluso da me stesso per averlo fatto, ho anche pianto per giorni per accettarlo. È successo, e ho fatto anche una artroscopia al ginocchio dopo il problema avvertito a Roland Garros. Il menisco era andato e non c’era alternativa. Ho giocato e finito quella partita in cui mi sono fatto male, anche se il medico mi disse subito in campo che la situazione non era affatto facile. Ho resistito e dopo una mezz’ora il dolore se n’è andato, ho vinto la partita. Ma all’indomani mi sono fatto una risonanza e la diagnosi è stata rottura del menisco. Mi sono dovuto ritirare dal torneo e operazione immediata, c’era Wimbledon dopo solo 3 settimane. Ricordo i discorsi col mio team… e col mio fisioterapista… Ci vogliono dalle 4 alle 6 settimane, ma alcuni atleti riescono ad aver recuperi miracolosi. Il fisio mi disse non pensare nemmeno per un secondo di poter giocare Wimbledon. Io non risposi niente, tutti i membri del team furono d’accordo. Poi dopo poco dissi a tutti di vedere come il mio corpo avrebbe risposto nelle due settimane successive, tanto posso cancellarmi dal torneo qualche giorno prima dell’inizio. Ero con le stampelle, ma mi sono messo con tutta la mia forza a cercare di recuperare, e ce l’ho fatta, sono arrivato in finale. Poi alle Olimpiadi ho vinto l’Oro. Dopo l’operazione, in un momento di grandissima difficoltà, qualcosa ha fatto click nella mia testa. Sentire il mio fisio dirmi quella cosa, di non pensarci nemmeno, è stata la molla di cui avevo bisogno. In quella situazione ho trovato un obiettivo, una sfida da vincere. È come nei nostri giorni, il bisogno di sentire una nuova sfida, un obiettivo da raggiungere”.
    Interessante poi il passaggio sulla motivazione prendendosi un nemico da sfidare e battere, anche tra il pubblico… “Gli atleti di massimo livello a un certo punto della loro carriera hanno bisogno di sfide, si nutrono di quello per andare avanti. Faccio mie le parole di Michael Jordan nella serie “Last Dance”, quando ha affermato che finiva per selezionare uno spettatore nel pubblico che gli stava dicendo di tutto per trasformarlo in un nemico, ma solo perché aveva bisogno nella sua testa di un nemico da battere. Mi riferisco a questo, anche se io non ho avuto per forza bisogno di fare lo stesso in ogni mia partita. Ho avuto molte esperienze non sempre semplici col pubblico nel corso della mia carriera… Soprattutto quando giocavo contro Federer o Nadal la grande maggioranza del pubblico era contro di me, è stata una sfida ma spiega anche da dove venga la mia forza mentale. Anche all’interno di contesti ostili, ho trovato una via per vincere la partita, trasformare quell’energia in benzina e non farmi abbattere”.
    Djokovic fornisce una visione di quello che potrebbe fare dopo il tennis: “Una delle mie grandi passioni e interessi attualmente è quello che potrei definire come salute, sentirsi bene, cura di se stessi. Mi immagino sempre più coinvolto in attività che possano portare le persone a prendersi cura del proprio benessere: come si mangia, si beve, si fa attività, si dorme, e via dicendo. Per esempio moltissima gente, incluso atleti di massimo livello, non capiscono l’importante di idratare adeguatamente le proprie cellule. È cruciale alla nostra salute e non solo nello sport. Non è facile assumere tutto dall’alimentazione per questo avere degli integratori può aiutare, come escludere dal proprio corpo moltissime sostanze che provocano dei processi infiammatori che causano molti problemi di salute. Nel mondo ci sono milioni di diete, ma sull’idratazione sono tutti d’accordo, è una parte decisiva della nostra salute”.
    Il suo migliore e peggiore giorno in campo: “Il migliore è stato vincere l’Oro olimpico per il mio paese nel 2024, ha sorpassato anche l’emozione del vincere Wimbledon per la prima volta. Il peggiore… direi ancora alle Olimpiadi, quando a Rio 2016 persi la possibilità di vincere l’oro. Ero con dei problemi al polso, non sapevo se giocare o meno, e persi da Del Potro. Ero al picco della mia carriera, avevo vinto tutti e quattro gli Slam, ero nel momento più dominante della mia vita, e arrivai a Rio sentendo problemi al polso. Il draw è stato pessimo, Del Potro all’esordio, e persi. In quel momento ho sentito che il mio mondo fosse crollato. Le Olimpiadi si giocano ogni quattro anni e arrivarci al massimo non è affatto scontato. Le ho vinte arrivando in un momento difficilissimo e per quello è così speciale, a 37 anni…”.
    “Il mio avversario più tosto mentalmente? Me stesso, di gran lunga…” afferma Novak, “mentre fisicamente il più duro è stato Nadal. Le battaglie con lui sono stato incredibili, come la finale degli Australian Open 2012 dopo quasi sei ore di partita. Dopo il match durante la premiazione ci siamo entrambi piegati con le gambe che tremavano, tanto che qualcuno è arrivato con due sedie. Avevo entrambi i calzini macchiati di sangue per quanto avevo speso, ma con l’adrenalina della partita ero riuscito a resistere a tutto. Quando i muscoli si sono rilassati non riuscivo nemmeno a camminare”.
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    Corretja crede in Rune: “Holger ha tutte le qualità per vincere uno Slam già dal prossimo anno”

    Holger Rune

    Nel “caliente” weekend di Davis Cup in quel di Marbella, Holger Rune è stato certamente uno dei protagonisti, nel bene e nel male. Il classe 2003 danese non è riuscito a portare il terzo punto alla sua squadra perdendo un match a dir poco complesso contro Pedro Martinez, arrivando a beccarsi più volte col pubblico e mostrando tutto quel lato ruvido del proprio carattere che sembra diventato un ostacolo importante alla sua definitiva affermazione. Tuttavia è indubbio che sia un tennista di grandissimo talento, non si arriva al n.4 del ranking per caso e quando affronta uno dei migliori è quasi scontato che ci sia una partita di gran livello. In lui continua a credere Alex Corretja che nel corso delle giornate di Davis in Spagna ha parlato del potenziale del danese, affermando che già nel 2026 potrebbe arrivare a vincere uno Slam.
    “Spero davvero che Rune abbia successo, mi piace sinceramente” commenta Corretja, ex n.2 al mondo e vincitore delle Finals, a SpilXperten. “Porta qualità fantastiche al tennis ed è davvero importante per questo sport, ma deve ancora trovare la sua strada per ottenere risultati migliori”.
    Rune ha vissuto una stagione con alti e bassi. Ha brillato a Indian Wells, dove solo uno scatenato Draper l’ha fermato in finale, e si è tolto la grandissima soddisfazione di battere Alcaraz nel match per il titolo a Barcellona. Nel suo 2025 pesano risultati non all’altezza negli Slam: ottavi in Australia, battuto da Sinner (in un match molto complicato), ancora stop negli ottavi a Roland Garros per mano di un ottimo Musetti, quindi out all’esordio a Wimbledon battuto da Jarry e sconfitta al secondo turno a US Open, al quinto set contro Struff. Secondo Corretja, il talento scandinavo ha già dimostrato con il trionfo al Paris Bercy 2022 di poter battere i migliori, ma gli manca ancora continuità.
    “Penso che per Holger si tratti solo di capire quando riuscirà a mettere insieme gli ultimi pezzi del puzzle. Deve trovare il modo di comportarsi sia dentro che fuori dal campo. Ha bisogno di una migliore comprensione del suo gioco, ma anche di quello dei suoi avversari” commenta Alex. “Non credo ci sia motivo di confrontarlo con giocatori come Alcaraz e Sinner oggi. Tuttavia non vedo assolutamente nessuna ragione per cui Holger non possa vincere uno Slam l’anno prossimo, e competere per questo tipo di titoli per molti anni a venire. Ha una personalità forte, è un grande combattente, lavora duramente. Mi auguro davvero che trovi la sua strada nel miglior modo possibile. In realtà l’ha già trovata, è stato top 10 e ha vinto un Masters 1000, ma sento che può fare molto di più”.
    Vedremo se nell’ultima parte di stagione si inizierà a vedere la mano di Andre Agassi, nuovo consulente di Rune, e magari anche quella di Marco Panichi, da qualche settimana entrato nel team del danese come preparatore atletico. Il potenziale di Holger è indubbio. Come dice Corretja, la difficoltà è nella gestione: delle emozioni e del gioco, nel saper leggere il momento per attaccare e rischiare e quale invece attendere. Soprattutto nella lucidità in campo e nel concentrare la sua enorme energia solo nel gioco, e nient’altro.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Macci (ex coach di Serena e Roddick) mette in guardia Sinner: “Attenzione a non creare nuovi problemi cambiando troppo il gioco”

    Jannik Sinner (foto Getty Images)

    Il mondo del tennis da giorni si interroga su quali possono essere i futuri scenari al vertice dopo l’esito netto della finale di US Open, con Carlos Alcaraz dominante su Jannik Sinner. Tanta differenza al servizio, ma non solo, tutto a favore dello spagnolo che con il successo a New York ha anche scalzato l’italiano dal vertice del ranking ATP. Importante è stata l’autocritica di Sinner, che dopo la partita ha masticato amaro – pur con la consueta pacatezza e lucidità di analisi – affermando che il suo tennis in finale è stato “prevedibile”, parlando chiaramente della necessità di lavorare ancor più duramente per introdurre qualche aggiustamento tattico e novità.
    Molte sono state le reazioni a queste significative parole di Jannik, disposto a concedere di più agli avversari nei prossimi tornei pur di testare qualche novità e così cercare di diventare un giocatore più vario. La maggior parte degli analisti ha commentato con favore questa scelta dell’azzurro, ma c’è anche una voce discorde, e di una certa rilevanza.
    Proprio sul punto di cambiare e mettere mano al suo gioco, un tennis così solido da portarlo a dominare il tour per un anno e mezzo, è intervenuto Rick Macci, coach inserito nella Hall of Fame ed ex allenatore, tra gli altri, di Serena Williams, Andy Roddick e Maria Sharapova. Il 70enne allenatore statunitense ha messo in guardia Jannik sul non esagerare nello “smontare” un tennis che potrà anche essere poco vario ma che è assolutamente di qualità e consistente. 
    “Certo, Sinner deve fare qualche correzione”, ha scritto Macci in un commento sul social X. “Ogni giocatore ha una scelta e ha bisogno di sentire una voce diversa. Ma non è obbligato ad ascoltarla a tutti i costi. Bisogna stare molto attenti, perché quando provi a risolvere un problema rischi di crearne un altro“.
    Un avvertimento di buon senso e figlio della grande esperienza del coach americano. Alla fine la bontà di una scelta la si misura anche dall’equilibrio e da un’analisi attenta di costi – benefici, come spiegano le grandi leggi dell’economia. Sull’erba di Wimbledon un Sinner in grandissima condizione atletica e molto determinato era riuscito ad andare molto sopra al livello di Alcaraz, bloccato in un pressing talmente asfissiante da portarlo ad dire al suo angolo “sta giocando molto, molto meglio di me”. Poi sul cemento in Nord America è stato lo spagnolo ad arrivare meglio, fisicamente e tecnicamente, tanto da giocare un US Open quasi impeccabile e vincere con pieno merito la finale sull’italiano. Una partita che ha fatto affermare a Jannik “devo portare qualcosa di nuovo del mio gioco”. Ma attenzione a non esagerare: minare le fondamenta di un tennis così concreto, solido, aggressivo e vincente potrebbe essere un rischio importante, come afferma Macci.
    Non resta che attendere la tournée in Asia, dove vedremo di nuovo in campo Jannik e potremo valutare se testerà qualcosa di nuovo. Dopo US Open 2023, proprio in Cina, sbocciò il Sinner “Maximo”, quello che con alcune settimane di lavoro mirato riuscì a colmare alcune lacune divenne quasi imbattibile, servendo benissimo e partendo a razzo verso l’Olimpo. A due anni di distanza, con 65 settimane da n.1, 4 Slam vinti, 2 Davis e tantissimo altro, sarà curioso ritrovarlo in campo. Con ancor più voglia di vincere imparando da problemi e sconfitte.
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    Bentornata, “cara” Davis…

    Il team ceco vittorioso a Delray Beach

    Non è importante attendere la conclusione dei vari incontri previsti nella giornata di oggi per affermare, con pizzico di soddisfazione, “Bentornata, cara Davis Cup”, o frammenti preziosi di quello che ti ha reso unica. Le prime giornate di gare andate in scena tra Stati Uniti, Australia, Spagna, Croazia e via dicendo hanno già scritto la sentenza: seppur la formula attuale non sia un optimum, grazie al ritorno degli scontri casa-trasferta su cinque match si è rivista l’essenza di quello che rendeva la competizione diversa da tutto quello che assistevamo nella lunga, a tratti estenuante stagione tennistica. Abbiamo ritrovato l’epica del confronto, un senso di vera appartenenza che scaturisce dalla chance di giocare di fronte al proprio pubblico nel proprio paese; e per chi è in trasferta invece quello di sentirsi dei corsari, avventurieri capaci di fare da splendidi guastafeste e pure ribaltare un valore di classifica che sul Tour stagionale resta consolidato. Basta vedere quel che è accaduto in Spagna con la clamorosa sconfitta di Munar contro il danese Elmer Moller, un 22enne ancora lontano dal tennis che conta ma che con carattere e qualità è andato a prendersi una vittoria meravigliosa contro un “cagnaccio” sportivo come Munar, uno che invece ha sentito tutta la pressione dell’indossare la casacca della nazionale e non ha retto.
    È solo uno degli incontri simbolo di un lungo weekend di Davis Cup tornata alla formula che l’ha resa unica, seppur in parte visto che la fase decisiva sarà poi ancora la Final 8. C’è grande lotta anche in Australia, dove il team “green and gold” ha chiuso sotto 1-2 con il Belgio. Indomabile la Francia che è andata a prendersi un posto a Bologna grazie a un Corentin Moutet che per una volta ha pensato solo a giocare a tennis – e farlo bene – invece di gigioneggiare nelle suoi bizzarri attacchi di follia, spesso autodistruttivi. Giocare per Bleu ti dà qualcosa in più, ti fa canalizzare solo energia positiva spinto dai compagni e dal rappresentare il tuo paese. E che dire dei cechi a Delray Beach, autori della vera impresa andando a battere in trasferta lo squadrone USA. Era la sfida più interessante dell’intero round di Qualifiers, e Lehecka si è messo la tuta da superman andando a prendersi due splendide vittorie su Tiafoe e Fritz, con il giovane Mensik che non ha sentito la pressione del quinto e decisivo incontro martellando con la sua potenza Tiafoe, grande lottatore ma battuto su tutta la linea. È la magia della Davis che sovverte pronostici, che a qualcuno dà, ad altri leva. È il contesto unico, l’energia nell’aria a diventare talmente forte da poter esser quasi afferrata e canalizzata nelle proprie corde, regalando una magia che ti porta a superare ostacoli sulla carta impossibili. 
    Vedremo cosa ci dirà la domenica di gare, se la Spagna compirà il miracolo e ribalterà tutto contro Rune e compagni. Vedremo se l’Australia riuscirà a fare lo stesso contro il Belgio. Ma per noi, già pronti a Bologna a difendere i due titoli vinti a Malaga nel 2023 e 2024, conta poco. Noi che assistiamo a questo ritrovato turno di Qualifiers siamo già molto soddisfatti. La formula attuale è sempre un grosso compromesso. Si gioca in una data infausta schiacciata tra la conclusione di US Open (che per esempio è costata alla Spagna l’assenza di Alcaraz, che poi giocherà in Laver Cup…) e la trasferta in Asia. Ma c’è del buono che è tornato. I gironi della scorsa formula non piacevano a nessuno, erano un totale contro senso tra palazzi vuoti e interesse ridotto all’osso, eccetto pochi incontri. La Davis è bellissima perché è tennis che diventa epica, per il contesto, per la diversità, per tutto quello che è stato scritto da una competizione nata nel 1900, la più antica a squadre per nazioni in tutti gli Sport.
    C’erano tanti problemi e difetti, non stava in piedi schiacciata da un calendario troppo pieno di eventi ricchi e non cancellabili, e una riforma era cosa giusta. Fu riformata in modo clamorosamente errato dal gruppo Kosmos-Piqué con il beneplacito di un ITF che si fece convincere a suon di denari, nemmeno garantiti a sufficienza visto il crollo finanziario – inevitabile – arrivato da lì a poco. Si è corsi in parte ai ripari, aggrappandosi alla certezza, ossia quello di renderla almeno in parte alle nazioni, a casa loro, in un weekend da vivere in forti emozioni. Non siamo affatto ad una formula buona. Mancano i 5 set, che come dice Hewitt erano uno dei tratti distintivi e che sarebbero assolutamente da reintrodurre. Sulla finale in sede unica si può parlare e discutere, provare e sperimentare ancora. Ma quel che davvero servirebbe per rendere dignità e prestigio alla competizione è lo spazio. Rendi davvero centrale un evento se lo programmi in settimane adeguate alle esigenze dei giocatori e valorizzi il tutto con lo settimane intorno meno importanti (non dopo uno Slam!) in modo che sia assolutamente appetibile per gli atleti. I tennisti quando scendono in campo con maglia del proprio paese riescono a trasformarsi e giocare un tennis diverso, un tennis che il pubblico adora. Non sembra tanto difficile da capire, ma il problema resta sempre e soltanto uno: i soldi, quel che comanda la baracca.
    Gustiamoci intanto questo turno di partite che ci ha fatto rivivere emozioni nascoste. Ipotizzare che possa accadere il miracolo, ossia che tutti i soggetti che governano il tennis si mettano a un tavolo e rivedano l’intera stagione per dare il giusto spazio alle settimane della Davis, è una vaga illusione. E un terribile peccato perché in tanti incontri di “vera” Davis Cup il tennis diventa leggenda, quelle partite che non potrai mai dimenticare…
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO

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    12 settembre 1988: Wilander diventa n.1 dopo aver battuto Lendl nella finale di US Open

    Wilander con la coppa di US Open 1988

    “Non ho mai visto un tennista giocare un match così importante e riuscire ad andare tanto sopra a quelli che tutti consideravamo essere i suoi limiti”. Così il leggendario Rino Tommasi commentò la stupefacente vittoria di Mats Wilander all’edizione 1988 di US Open, battendo un fortissimo Ivan Lendl in una finale magnifica, che regalò allo svedese il terzo Slam di quella stagione per lui irripetibile (e settimo in carriera), issandolo all’indomani sul trono del tennis maschile per la prima volta. Quel lunedì che segnò la detronizzazione di Lendl dopo 157 settimane di fila da n.1 era esattamente il 12 settembre 1988. Wilander è stato uno dei tennisti più consistenti degli ’80s, fortissimo atleta e mago della tattica. Nessuno come lui riusciva a trasformarsi da “pallettaro” totale, uno capace di star lì a rimettere palle lente e storte per stroncare la resistenza e pazienza dell’avversario di turno, ad attaccante sopraffino, velocissimo nel correre a rete e prendersi il punto con tocchi tutt’altro che modesti. Leggeva le situazioni di gioco e il momento dell’avversario alla perfezione, ed era freddissimo e lucido nel trovare le contromosse ideali a mettere in difficoltà il rivale. Concentrazione assoluta, come dimostra la finale di Roland Garros del suo favoloso ’88: per tenere ferma l’esuberanza in risposta di Leconte servì il 97% di prime palle in gioco, segno di una tenuta mentale assoluta. In quegli anni Mats fu uno dei più forti e regolari, ma spesso veniva surclassato dalla maggior potenza di Lendl e Becker, o dai tocchi magici di McEnroe ed Edberg. Nel 1988 Wilander iniziò l’anno con una eccellente affermazione agli Australian Open (suo terzo titolo “down under”), quindi vinse anche a Key Biscayne, in quello che all’epoca era il torneo più prestigioso dopo gli Slam. Si issò al n.2 del mondo, e Lendl divenne per la prima volta “prendibile”, non solo un miraggio.
    Mats dominò Roland Garros ma sull’erba di Wimbledon non andò oltre i quarti di finale, mai superati in carriera a Londra. Dopo l’erba tutti negli USA per i tornei sul “duro”, e Wilander si mostrò durissimo, determinato a colmare il gap con Lendl. Lo svedese si impose a Cincinnati, Lendl a Toronto. Chi dei due avesse vinto US Open sarebbe stato n.1 all’indomani della finale a New York. La finale tanto attesa dal mondo del tennis si concretizzò. E non fu una finale come tante. Ivan era il campione in carica nelle tre edizioni precedenti, il suo tennis forte di servizio e un diritto pesantissimo diventava quasi imbattibile a Flushing Meadows ma in quella domenica newyorkese accadde il miracolo. Mats prevalse per 6-4 4-6 6-3 5-7 6-4 al termine di 4 ore e 54 minuti di vera battaglia a tutto campo, in una delle finali più belle e iconiche nella storia ultracentenaria del torneo. Pensando ai nostri giorni, stride constatare che lo svedese ritirò un assegno di “soli” 275mila dollari per il titolo… ma quel giorno Wilander pensava solo alla gloria, a vincere il settimo Slam in carriera e battere l’eterno (e poco amato) rivale. Ci riuscì mettendo in campo un tennis sorprendente e bellissimo.
    Lendl era solito soverchiare Wilander con la potenza dei suoi colpi, rispondendo così profondo e “pesante” da buttare così indietro lo svedese da aprirsi il campo e quindi entrare con un fendente successivo. Mats era consapevole che i suoi colpi non erano abbastanza potenti da poter reggere in scambi prolungati sul cemento contro Lendl, per questo si impose di attaccare a più non posso, venendo a rete il prima possibile e mettendo molta pressione al ceco, in modo da non lasciarlo sbracciare col diritto. Servì bene Mats ma soprattutto usò come mai in carriera il back di rovescio per venire a rete, spesso con palle non profondissime ma un po’ storte e corte, per mandare fuori posizione Lendl. Mats alternò alla grande parabole più alte ad improvvise accelerazioni, non solo col suo bellissimo rovescio d’incontro – il miglior colpo del suo repertorio – ma anche col diritto, prendendosi grandi rischi e speso sfidando pure quello dello “Zar” sulla diagonale, dove generalmente pagava dazio. Volava quel giorno Wilander, fece tutto benissimo con un’intensità e vigore tali da stroncare la durissima corazza di Lendl, alla fine sconfitto. Fu una partita capolavoro per lo svedese, nel complesso la sua migliore visto il contesto, il rivale, il peso specifico dell’evento.
    Wilander toccò l’apice della carriera, ma da lì il poco arrivò il crollo. Restò n.1 per 20 settimane, vincendo il torneo di Palermo da leader nel ranking, ma dopo gli Australian Open 1989 Lendl si riprese il n.1 e Mats iniziò una lenta discesa, senza mai ritrovare quella forza fisica e mentale che l’aveva portato a vincere tre Slam su quattro nel ’88. “Mi sentivo il miglior giocatore del mondo nel 1988, ma una volta che sono stato etichettato come numero 1 con la prima posizione in classifica ho vissuto quattro mesi scioccanti… Fui semplicemente pessimo nell’affrontare quella pressione”, affermò Mats a fine carriera, confermando quanto pagò lo sforzo per arrivare in vetta, poi incapace di reggere a quel livello. La sua impresa a New York e la conseguente ascesa sul trono del ranking resta una delle pagine più leggendarie del tennis maschile moderno.
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    Becker ipotizza un ritiro non lontano per Djokovic: “Le Olimpiadi 2028? Irrealistico. Le sue parole dopo US Open già sanno di addio”

    Novak Djokovic a US Open 2025

    Con la sua grinta leonina, “Nole” non ne vuol sapere di mollare, ma… per quanto ancora? La sconfitta in semifinale a US Open patita da Novak Djokovic contro Carlos Alcaraz ha dato nuova linfa al dibattito su quando il serbo scriverà la parola fine alla sua leggendaria carriera. A rafforzare le ipotesi su di un ritiro non così lontano le sue stesse parole nella conferenza post partita: mai aveva affermato a chiare lettere che contro il vigore di potenza atletica di Sinner e Alcaraz le sue armi sono ormai spuntate. Così la pensa che Boris Becker, che conosce benissimo il campione di Belgrado per averlo accompagnato come coach in alcune delle migliori stagioni. Intervenuto al podcast di Andrea Petkovic, Boris ha commentato le parole di Novak Djokovic sul proseguimento della carriera nei tornei dello Slam nel 2026, vedendovi un chiaro indizio di un possibile addio al tennis al termine degli US Open del prossimo anno.
    “Parto dalla prima semifinale tra Alcaraz e Djokovic,” afferma Becker. “È straordinario come Djokovic sia riuscito a tenere botta per due set. Nel secondo, forse, avrebbe addirittura potuto vincere. Ma ancora una volta Alcaraz si è dimostrato più forte fisicamente e, nel terzo set, anche tennisticamente. Non possiamo sorprenderci: Novak ha 38 anni. Ma il fatto che oggi sia ancora il terzo giocatore più forte del circuito è incredibile per lui… e allo stesso tempo poco confortante per tutti gli altri. Dopo la partita, però, ha ammesso per la prima volta che non è più sostenibile affrontare giocatori come Sinner e Alcaraz tre set su cinque. E ha lasciato intendere di non sapere ancora quanto durerà la sua avventura negli Slam.”
    Becker ha sottolineato come, per la prima volta, Djokovic abbia parlato apertamente della possibilità che il 2026 rappresenti la sua ultima stagione da protagonista nei tornei major: “Ha detto che può ancora competere con questi due, ed è vero. Ma perché gioca a tennis? Per vincere Roma o Montecarlo per la diciassettesima volta… oppure per conquistare un altro Slam e arrivare a 25 titoli? Credo sia la seconda opzione. E oggi ha ammesso che, vista l’età e la forza della nuova generazione, non è più realistico. Questo cosa significa? Significa che prima o poi smetterà, ed è normale che sia così. La domanda è quando. Ci sarà ancora un’altra stagione di Slam? Dall’altra parte sogna le Olimpiadi del 2028 per difendere l’oro della Serbia. Ma personalmente trovo irrealistico pensare che possa arrivare fin lì. Già agli US Open le sue parole hanno avuto il sapore di un addio.”
    Becker ha concluso il suo intervento su Djokovic rimarcando l’eredità sportiva del campione serbo: “Novak è arrivato alla fine dei suoi sogni. Finalmente è rispettato e amato da tutti gli appassionati, a New York, Parigi e Londra. Credo che abbiano capito quale carriera straordinaria abbia avuto Djokovic, e quanto sia importante come simbolo per le nuove generazioni. Quando ho sentito che questa era la sua semifinale numero 53 in un torneo dello Slam, ho pensato a un errore di stampa. Cinquantatré volte! Nessuno raggiungerà mai un traguardo simile. Per me, il cerchio si è chiuso.”
    Parole nette quelle di Becker, che partono da constatazioni importanti. In Australia il serbo riuscì ad imporre la sua classe e forza mentale su Alcaraz, ma da allora è passato quasi un anno. Carlos è migliorato moltissimo, in tutto; Sinner continua a macinare un successo dopo l’altro e nel 2025 ha battuto Djokovic in semifinale sia a Parigi che Wimbledon, molto nettamente e senza mai dare la sensazione che la partita gli potesse sfuggire di mano. Djokovic a New York nel secondo set contro Carlos ha compiuto il suo massimo sforzo, atletico e mentale, ma non è bastato. Cose che un campione come Novak sente, e valuta. Avrà ragione Becker affermando che il 2026 sarà l’ultimo anno di Djokovic?
    Marco Mazzoni LEGGI TUTTO